Multinazionali del web, conoscerle per tassarle

di Giovambattista Palumbo
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Lunedì 4 Dicembre 2017, 00:05
Big data è un termine che indica la capacità di estrapolare ed analizzare un’enorme mole di dati eterogenei, per scoprire i legami tra fenomeni diversi e prevedere quelli futuri. Le nostre storie, foto e relazioni personali diventano così il prodotto più venduto al mondo e senza alcuna retribuzione per gli originari proprietari. Quando si dice quindi che le multinazionali del web (le principali estrattrici, utilizzatrici di big data) devono essere tassate dove vendono i loro prodotti, bisogna riflettere anche in ordine al fatto che i cittadini italiani non sono solo clienti, ma sono loro stessi il “prodotto”.

I cittadini italiani cedono gratis la loro vita privata a multinazionali che ci fanno un sacco di soldi, senza neppure pagarci le tasse: un insieme di paradossi. Esiste una quantità inimmaginabile di dati (informazioni sull’età, sul sesso, le preferenze, le abitudini, i viaggi etc.) generata ogni minuto: sono talmente tanti che per misurarli si usa lo zettabyte, vale a dire l’equivalente di un triliardo di byte.

Ma a cosa servono i big data? L’esempio più immediato riguarda la sfera del marketing, dove servono a profilare i potenziali clienti, permettendo di proporre in modo mirato prodotti o servizi. Conoscere le abitudini dei consumatori è del resto un “asset” fondamentale per tutte le aziende. Il problema è allora il seguente: quanti soldi potranno generare queste informazioni e chi ne trarrà beneficio e dove pagherà le tasse per questo beneficio (se le pagherà)? 

In merito a quest’ultimo quesito vi è peraltro già una proposta dell’Ocse di una equalization tax, basata sul volume di dati personali che, attraverso la loro attività, le multinazionali dell’economia digitale riescono ad acquisire dalla loro clientela. Una soluzione del genere, integrativa o rafforzativa del concetto di tassazione della stabile organizzazione occulta, potrebbe essere peraltro, al tempo stesso, “rivoluzionaria” ed efficace. Si potrebbe infatti prevedere tra gli indici presuntivi di stabile organizzazione occulta, di cui ora anche alla proposta di emendamento Mucchetti in tema di web tax, anche la massa di dati raccolti in ciascuno Stato, che, effettivamente, coglie un profilo particolarmente rilevante e specifico dell’attività delle multinazionali dell’economia digitale. 

Come detto, gli acquirenti italiani dei servizi web sono ad un tempo clienti e loro stessi “prodotto” (sotto il profilo delle informazioni personali). L’attività “estrattiva” rivolta alla loro acquisizione potrebbe allora essere considerata sufficiente ad individuare una stabile organizzazione nel Paese dove tali dati vengono “estratti”. Dovendo ricondurre un tale tipo di imposizione a qualche modello di prelievo già conosciuto, il riferimento più ovvio è alle accise. Certo, resta il problema di come quantificarne esattamente il valore. E in tale direzione le strade sono essenzialmente due (forse, solo due). Usare le metodologie del transfer pricing, con riferimento al concetto di valore normale, da individuarsi mediante il raffronto con i prezzi di beni e servizi praticati “in condizioni di libera concorrenza”, al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. 

Oppure, nell’ottica delle accise, quantificare l’imposizione in relazione ai bit collegati ai big data acquisiti. 
Concentrandosi su tale seconda soluzione, si evidenzia che l’idea venne per la prima volta formulata da Arthur Cordell, alla metà degli anni Novanta. Cordell immaginava di tassare indiscriminatamente tutto il traffico dati, attribuendo ai provider l’incarico di applicare il tributo ed incassarlo per conto dei governi; e ne individuava anche la misura – 0,000001 centesimi di dollaro per bit – sia pure ammettendo che l’aliquota si sarebbe poi potuta adeguare al livello di sviluppo delle attività telematiche. Il problema di tale soluzione, a parte che la citata aliquota comporterebbe oggi un’imposizione troppo elevata, è che non tutti i bit sono uguali, anche considerato che non tutti creano un ritorno economico e tra questi non tutti creano ritorni economici non tassati. 
Nel caso dei big data, però, per quanto fin qui detto, non c’è dubbio che gli stessi abbiano un valore enorme per le aziende, consentendogli di ricavare, esentasse, enormi introiti.

Esulando dunque dalla ordinaria logica dell’imposizione diretta, tali “valori” (e solo questi) ben potrebbero essere soggetti ad una sorta di accisa digitale. Ma quanto si dovrebbe pagare? Per fare un confronto comprensibile, pensiamo a quanto paghiamo oggi agli operatori telefonici per il traffico dati mobile. Il prezzo di mercato è all’incirca 5 euro per 2 GB di traffico dati. Quindi 2,5 euro a GB, che è uguale a 1000 MB e quindi 0,0025 euro a MB. Un Megabyte equivale a 1.048.576 byte ma, per comodità, lo si calcola equivalente a 1.000.000 di byte. E dunque, applicando quei valori ai byte, abbiamo 0,0000000025 Euro a byte. Ma il Byte è la somma di 8 bit e dunque avremmo 0,0000000003125 Euro a Bit.

Ecco allora aggiornata la bit tax cordelliana, alla luce dei prezzi di mercato di oggi. Se il consumatore accetta di pagare queste cifre sui suoi traffici internet, perché le grandi aziende del web, a fronte di indubbi ricavi, non dovrebbero pagarvi un’“accisa”?

* Direttore Dell’Osservatorio Eurispes per le politiche fiscali
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