«Corruzione in Nigeria», il pm: processare Descalzi e Scaroni

«Corruzione in Nigeria», il pm: processare Descalzi e Scaroni
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Mercoledì 8 Febbraio 2017, 17:30 - Ultimo aggiornamento: 19:07
La Procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio per l'ad di Eni Claudio Descalzi, per l'ex ad Paolo Scaroni e per altre 9 persone, tra cui anche Luigi Bisignani, la stessa Eni e Shell, queste ultime due indagate in base alle legge sulla responsabilità amministrativa degli enti, nell'ambito del procedimento con al centro l'accusa di corruzione internazionale per una presunta maxi-tangente da 1 miliardo e 92 milioni di dollari che sarebbe stata versata da Eni e Shell a politici nigeriani per l'acquisizione nel 2011 di un giacimento petrolifero in Nigeria noto con la sigla 'Opl-245'. La richiesta di processo, firmata dai pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro e che a breve arriverà sul tavolo del gup di Milano Giusi Barbara, segue l'avviso di conclusione delle indagini con il deposito atti dello scorso 22 dicembre.

La presunta maxi mazzetta da 1 miliardo e 92 milioni, equivalente al prezzo dell'acquisizione
da parte di Eni e Shell del giacimento petrolifero, sarebbe servita, secondo l'accusa, a corrompere una sfilza di politici del Paese africano e in parte sarebbe stata anche retrocessa a manager del colosso petrolifero italiano.
In particolare, hanno scritto i pm nel capo di imputazione, Scaroni avrebbe dato «il placet all' intermediazione di Obi» Emeka, presunto intermediario nigeriano delle stecche (indagato), «proposta da Bisignani e invitando Descalzi», all'epoca dg della Divisione Exploration & Production Eni, «ad adeguarsi». Sia Scaroni sia Descalzi, poi, secondo l'accusa, avrebbero incontrato «il presidente» nigeriano Jonathan Goodluck «per definire l'affare». Eni più volte ha ribadito, però, «la correttezza dell'operazione relativa all'acquisizione della licenza per lo sfruttamento del blocco 'OPL 245'».

La richiesta di processo, nell'ambito dell'inchiesta del Nucleo di polizia tributaria della Gdf, riguarda anche le due
società Eni e Shell (anche in Olanda c'è un'inchiesta) indagate in base alla legge 231 del 2001, oltre alle 11 persone fisiche, tra cui figurano anche l'allora capo della divisione Esplorazioni Eni, Roberto Casula, un altro ex dirigente Eni
nell'area del Sahara, Vincenzo Armanna, l'ex ministro nigeriano Dan Etete, Ciro Pagano, managing director di Nigerian Agip Exploration e Gianfranco Falcioni, altro presunto intermediario. Nel 2011, a detta dei pm, Eni e Shell avrebbero versato la maxi tangente per vedersi attribuiti «senza gara» e con una serie di clausole favorevoli «al 50%» a testa «i diritti di esplorazione sul blocco 245». L'ipotesi è che la società Malabu, riconducibile all'ex ministro nigeriano Etete, sia stata usata come 'schermò per far arrivare le presunte mazzette ai politici e burocrati nigeriani, tra cui Etete che avrebbe incamerato 250 milioni di dollari usati anche per «immobili, aerei, auto blindate». Tra le «retrocessioni», invece, i 50 milioni di dollari in «contanti» consegnati «presso la casa di Roberto Casula» ad Abuja e gli oltre 900mila euro versati a Armanna «su un conto corrente».

Secondo l'accusa, infine, un'altra tranche, circa 215 milioni, se non fosse stata sequestrata nell'estate 2014 dalla
magistratura inglese e svizzera sarebbe stata destinata a pagare altri manager Eni, intermediari stranieri, Obi e il russo Ednan Agaev (indagato), e mediatori italiani, Gialuca Di Nardo (indagato) e Bisignani.

Il cda dell'Eni ha confermato «la massima fiducia sulla estraneità della società» alla vicenda delle presunte tangenti in Nigeria e a «Descalzi sull'estraneità alle condotte oggetto di indagine e in generale sul ruolo di capo azienda». Lo riferisce una nota del gruppo petrolifero, aggiungendo di avere «massima fiducia verso la magistratura». Il cda, si legge, ha confermato la fiducia «anche sulla base delle approfondite analisi legali ad oggi effettuate».


 
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