Il deflusso è diventato la prima emergenza

di Oscar Giannino
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Venerdì 15 Settembre 2017, 00:07 - Ultimo aggiornamento: 10 Novembre, 19:14
È pesante la perdita di capitale pubblico e privato investito nella formazione dei giovani.
Il costo della formazione dei giovani dai 15 ai 39 anni che sempre più emigrano dall’Italia è salito da 5,8 miliardi l’anno medi, tra 2008 e 2010, ai 14 miliardi del 2016. Ieri l’ha certificato il Centro Studi di Confindustria, ed è una cifra spaventevole. L’Italia non è un Paese per giovani: tra i 15-24 anni in Italia il tasso di occupazione è inferiore di 15 punti alla media europea, tra i 25 e i 29 anni il gap arriva al 17%, ed è ancora superiore a 10 punti per i 30-34enni. E’ vero che il PIL italiano sta ripartendo, sia pur meno della media europea. Ma rispetto al 2000 il PIL dell’euro-area Italia esclusa è cresciuto a oggi del 24.4%, quello dell’Italia dello 0,8%. 

A dipingere il desolante quadro di un’Italia non per giovani concorrono molti fattori concomitanti, disegnati in decenni di scelte purtroppo sempre a svantaggio dei più giovani. Abbiamo costruito un mercato del lavoro che, dalle rigidità pre Jobs Act agli effetti dell’innalzamento dell’età pensionabile realizzato in emergenza dopo anni di colpevole incuria all’esplodere della spesa previdenziale, penalizza le giovani generazioni e avvantaggia le coorti anagrafiche più avanzate. Abbiamo un sistema previdenziale che ottiene lo stesso effetto, a vantaggio delle molto più pingui pensioni retributive pagate ogni mese con la contribuzione di chi è meno garantito oggi e avrà pensioni più basse domani. Abbiamo costruito una scuola e una università la cui offerta formativa converge nell’effetto di una bassa occupabilità immediata dei giovani diplomati e laureati, rispetto alle competenze richieste dal mercato del lavoro.

Sono tutti questi effetti sommati, a determinare la disastrosa perdita anagrafica comparata in 20 anni tra giovani e più anziani, sia in termini di reddito disponibile pro capite che di stock patrimoniale, certificata dalla Banca d’Italia nella sua analisi dei bilanci delle famiglie italiane. 
Oltre al problema del perdurante gap di produttività comparata italiana, l’emergenza numero uno in termini di abbassamento progressivo del PIL potenziale è dunque proprio rappresentata dal deflusso giovanile: ancora più forte da parte di chi ha capitale umano più elevato. Questi due elementi dovrebbero rappresentare la stella polare, le priorità assolute delle scelte economiche del Paese. Ed è su questi due elementi, a cominciare dall’ormai prossima legge di bilancio, che dovrebbero indirizzarsi le risorse a disposizione delle scelte pubbliche.
Qualcosa è annunciato, in termini di decontribuzione a tempo per i giovani fino a 30 anni. Ma obiettivamente siamo bel lontani dal concentrare il più delle non molte energie disponibili su questo versante. Con la Buona Scuola non si sono modificati a fondo i programmi scolastici. I concomitanti progetti di agevolazione al prepensionamento aggraveranno comunque l’onere sulle spalle dei più giovani. Siamo lontani dalla necessaria rivoluzione delle politiche attive del lavoro, visto che persino l’esperimento in corso dell’assegno di ricollocazione sta ottenendo magri risultati.

Una scelta strategica per i giovani dovrebbe abbattere significativamente il prelievo fiscale a favore delle famiglie, per invertire in alcuni anni l’andamento demografico. Potenziare l’offerta di housing sociale a favore dei giovani, per rompere la lunghissima permanenza con i genitori fino a oltre 30 anni ormai. Una modifica sostanziale degli incentivi a scuole e università, anche salariali per gli insegnanti, ancorate al perseguimento in un certo orizzonte temporale di una percentuale molto più elevata di diplomati e laureati. Un piano di attrattività per i giovani stranieri nelle università italiane, anche qui ancorando una parte del fondo nazionale di finanziamento degli Atenei all’innalzamento delle quote di iscritti e laureati stranieri: perché demograficamente nel breve-medio periodo abbiamo bisogno anche di apporti esterni, ma qualificati. E anche di una politica dell’immigrazione che recepisse criteri di quote per titolo di studio, come da molti anni fanno numerosi Paesi avanzati, dall’Australia alla Germania che non a caso ha spalancato le porte nel 2015 ai siriani, che di tutti i Paesi origine del flusso biblico di profughi era quello a vantare il miglior capitale umano formato.

Abbiamo fatto solo alcuni esempi, per dare un’idea di che cosa significa un serio tentativo di inversione del depauperamento demografico all’origine delle sempre più magre coorti di giovani, e del deflusso di quelli formati in Italia, alla ricerca di Paesi non solo economicamente più dinamici, ma soprattutto con ascensori sociali, sistemi retributivi e di carriera molto più performanti, e premianti merito e capacità, non l’anzianità.
Non ci sembra di vedere nella politica italiana il segno di una tale consapevolezza. Naturalmente non siamo profeti di sventura, quindi aspettiamo la legge di bilancio. Ma una cosa è sicura: o i leader politici capiscono davvero, che decennio dopo decennio un Paese non per giovani è un corpo sempre più malato e avviato all’esplosione del rapporto tra pochi occupati e troppi pensionati e tra sani e malati cronici, oppure non sarà la pur spettacolare ripresa dell’export da sola, a evitare all’Italia il destino di un Paese di vecchi. Vecchi oggi ancora relativamente ben patrimonializzati, rispetto ad altre nazioni occidentali. Ma vecchi che a lungo andare impoveriranno anch’essi se non cambiamo le cose, dovendo liquidare col tempo fette crescenti di patrimonio per trasferire reddito ai giovani che restano, e restando sempre più esposti al rischio che sia troppo basso il numero di occupati a pagare ogni mese le pensioni agli anziani. 

 
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