Mario Soldati, Nino Rota
e la pajata nel Rione Monti

Mario Soldati (a sinistra) e Pippo Campanili bevono malvasia negli anni Settanta (copyright famiglia Soldati)
di Mario Soldati
5 Minuti di Lettura
Martedì 9 Luglio 2013, 10:46
Ogni anno, quando l’estate al colmo, accade, contro mia speranza, e nonostante miei minuti progetti e preparativi anche estremi, che il lavoro mi trattenga a Roma. E sono qui solo. Abbandonato dalla famiglia, abbandonato dagli amici e dalle compagnie consuete. La giornata passa nel lavoro, rapida, senza pensieri. Ma ecco il golfo della sera, ecco la voragine della notte estiva romana, calida, ventilata, sconfinata di ore e di secoli; gli strati confusi delle antiche civiltà sembrano riaffiorare, rifermentare, chiuderci con misteriosa naturalezza in questa giungla di case rosse e di monumenti giallastri, sotto un cielo violaceo: lunghe vie storte, vicoli fetidi e bui, quasi cunicoli, fessure tra palazzi enormi; e improvvisi slarghi in cui, sbucando, ci si ferma a guardare incantati; piazze vaste, sbilenche, in pendìo, dove gorgoglia una fontanella tranquillissima, e le case di qua e di là sono come quinte di una scena, e tutto è come una scena: i tre giovinastri all’angolo, con le magliette chiare e le motorette, il prete che passa lento, le tavolate di gente fuori dell’osteria con i boccali luminosi di topazio.

Vivo a Roma da trent’anni; eppure non v’è notte d’estate, se esco in giro per i vecchi quartieri, che non scopra una di queste strane piazze: voglio dire, una che non avevo mai visto, dove non avevo mai messo piede.



IL RIONE MONTI



Trastevere? Trastevere, oramai, non c’è più. La voga, le insegne al neon, le masse ogni anno crescenti dei turisti, ma soprattutto gli americani e il costume americano hanno profondamente guasto Trastevere, che si atteggia e semplifica sempre più quale gli americani possono pensarlo.

No, per ritrovare il Trastevere di prima della guerra, bisogna battere altri quartieri: il rione Monti per esempio, quei solenni e squallidi vicoli cinquecenteschi, rammemoranti addirittura le fazioni medievali dei Frangipane e degli Annibaldi, e che tuttavia la fronte umbertina e piemontese dei palazzi di via Cavour maschera e sottrae alla curiosità dei turisti, preservando così dalla corruzione livellatrice, semplificatrice, utilitaria del nostro secolo lo spettacolo di ben altra corruzione, antichissima, tragica, funebre e sublime.



LA TRATTORIA



Al Cardello, in via del Cardello angolo via Frangipane, Nino Rota e l’amico professor Verginelli mi avevano invitato a gustare la pagliata una notte dello scorso anno: nel colmo dell’estate, come adesso.

Adesso ci sono tornato e, me l’aspettavo, ho ritrovato tutto uguale: identiche luci solitarie e spaziate, identiche immense ombre su per le fiancate dei palazzoni.

Ecco lassù, altissimo, sospeso in cima alla quinta della casa d’angolo, rossastra, scabra e nuda, senza una finestra, senza una feritoia, l’assurdo ricamo ferreo di un balconcino barocco.

Ecco l’ostessa del Cardello. È padrona e cuoca; e i suoi figli sono i camerieri: biondi, pallidi, magri, sorridenti, intelligenti, raffinati, tanto diversi dall’abituale cliché del trattore romano.

Ecco, verso le dieci, le tre sorelle che passo passo rincasano dopo aver chiuso il loro negozio di mercerie a via dei Serpenti. (...) Ecco, poco più tardi, una ragazza bruna, nervosa, vestita di rosso: accorre alla fontanella con un fiasco. Il professor Verginelli, che era seduto di spalle alla fontanella, non poteva averla vista. Ma fu lui a indicarmela, interrompendo un momento il discorso e alzando in silenzio la testa come ad ascoltare un suono lontano.

E non era un suono.

Quella ragazza è sordomuta dalla nascita» spiegò Verginelli con uno strano lampo negli occhi neri, diabolici. «Sordomuta. Ed emana dal suo corpo un profumo naturale, come di rose. Non sente il profumo, Soldati? Io lo sento». (...)

Verginelli, che da moltissimi anni ha la sua casa proprio in questo rione, non diceva di più. Guardava intorno nella vecchia strada fantastica, dove per lui il passato è presente, e sorrideva. Insieme a lui, sorrideva anche Nino Rota, indicandomi, dalla parte opposta, due preti che salivano il lungo piano inclinato verso via degli Annibaldi, la stradina che fiancheggia il palazzo del Collegio Internazionale degli Oblati, difesa da un muretto a picco su via Frangipane. (...)



IL PIATTO



Ed ecco, sul tavolo rustico e comodo, accanto al vino di Grottaferrata, secco quanto un vino romano può esserlo, ecco finalmente la famosa pagliata.

La pagliata è un piatto tradizionale, antichissimo, della cucina romana. È l’intestino tenue secondo del manzo, detto la digiuna o il digiuno perché sempre vuoto se non del chimo, e cioè di quella pasta omogenea, viscosa, lattiginosa, che è come il sugo ultimo della digestione, il vero e puro elemento nutritivo.

La pagliata va mangiata soltanto il giovedì sera, e cioè soltanto la sera dello stesso giorno in cui si macella. Va accuratamente liberata dal grasso in cui è immersa, e, dalla sottile pelle che l’avvolge. Poi tagliata a ciambelle, e legata da un capo e dall’altro, così che, cuocendo, il chimo non esca.

Può essere cucinata in vari modi. Ma soprattutto in umido o al forno. Meglio al forno, o sulla gratella, con brace di carbone di legna.

È un sapore straordinario: come se un formaggio, invece di esservi sparso sopra per condimento, fosse naturalmente racchiuso nel cibo stesso: quel chimo gustato di sorpresa, nella sua vita fermentante.

Sale, pepe, olio e un goccio di vino completano la preparazione della pagliata arrosto: che, se freschissima, è tenera, croccante, profumata: un piatto prelibato, una delicatezza, o, per dirla con Apicio, una polytéleia, una sontuosità, un lusso.

Chiudo gli occhi mentre assaporo, e penso al mio vecchio maestro Ettore Stampini, alle lezioni su Persio, al calidum sumen, mammella di scrofa ripiena del suo latte.

Riapro gli occhi: ciò che vedo, il colore rosso delle mura, questo scenario di pietra e di mattoni, si accorda perfettamente con ciò che assaporo: qualcosa di fermentato, di forte, di bruciante e tuttavia piacevolissimo: come una eccitante eppure ferma familiarità con le potenze infernali della corruzione e del fermento, della morte e della vita, un sorriso pio verso ogni male, anche il proprio. Gli Dei…

A questo punto, consumata la pagliata, sentendomi forse già cedere in qualcosa, o sentendo nascere anche in me come il principio di quella mostruosa familiarità, senza farmene accorgere dai gentilissimi miei commensali, sospirai. (...)



(1959, tratto dal libro "Da Leccarsi i baffi", appena pubblicato da DeriveApprodi, antologia enogastronomica dello scrittore)
© RIPRODUZIONE RISERVATA