Dal romanzo arriva il film di Placido e ancora (e soprattutto, per la sua pervasività vincente) la serie tv di Stefano Sollima che lusinga con la ridondanza e rilancia il già assodato. Infine ecco di nuovo un romanzo, anzi il prequel (Io sono il libanese) che a ritroso vuole essere una sorta di motore primo dell’intera storia, dedicato all’ascesa del bandito più affascinante della banda padrona nella Roma anni 70 dietro la cui maschera si nasconde Franco Giuseppucci, il capo.
Un borgataro pasoliniano (ha ragione Antonio d’Orrico)che non corre mai il rischio dell’omologazione e resta sempre un ragazzo di vita (violenta), con un rapporto edipico con la madre. «A me nun me pare giusto che l’oro sta tutto da ’na parte e la merda tutta dall’altra»: con questa filosofia spicciola e un po’ rivoluzionaria (ma diffidando di chi in quegli stessi anni gioca a fare il contestatore tra le grandi famiglie ricche e di sinistra che gli capita di frequentare per questioni di cuore), quel ragazzetto spettinato che s’arrangia in droga e nel traffico di armi, compie la sua formazione criminale e sentimentale muovendosi dal vero apprendistato, quello di Regina Coeli. Così parte alla conquista di Roma: l’abile De Cataldo lo pedina mentre festeggia con Dandi, il Bufalo e Scrocchiazeppi , vive l’amore con Giada, ragazza dei quartieri alti, progetta il primo rapimento, si trova coinvolto nei primi ammazzamenti. Un po’ per caso e un po’ per libera scelta, e tutto per agguantare il proprio destino, per essere ciò che inevitabilmente sarà. «Era tornato un piccolo delinquentello di mezza tacca. Forse non era mai stato qualcosa di diverso. Forse era davvero il momento di mollare tutto. Toccava decidersi però. O dentro o fuori».
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