Fitzgerald, "L'amore dell'ultimo milionario" torna in libreria dopo 30 anni

Francis Scott Fitzgerald
di Goffredo Fofi
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Lunedì 16 Luglio 2012, 15:39 - Ultimo aggiornamento: 30 Luglio, 12:55
Sugli anni hollywoodiani di Francis Scott Fitzgerald si accumulata una bibliografia enorme, che ha soprattutto affrontato il tema cos importante, affermatosi nel corso del Novecento principalmente attraverso il cinema, della commercializzazione o sostituzione della cultura popolare diventata mass culture, controllata e gestita dall’alto. Ricordiamo l’attenzione dei Benjamin e dei Kracauer per la sua presa popolare, la condanna senza remissione di Adorno e dei suoi seguaci, il vario recupero a fini altri da parte delle avanguardie (soprattutto russe, tedesche, francesi), il fascino esercitato su artisti d’ogni campo per la diffusione dei propri prodotti, e ovviamente la possibilità di vender bene, alla lettera, il proprio ingegno e le proprie idee – fama e denaro, ieri come oggi, quali faustiane tentazioni che solo pochi artisti hanno saputo controllare o dominare. Anche Fitzgerald finì per cedere e passare dalla letteratura al cinema (da un’industria a un’altra, in definitiva, anche se la prima gli assicurava una maggiore libertà), afflitto da problemi personali acuiti da un passaggio d’epoca che lo vide, dopo il travolgente successo dei ruggenti anni Venti, messo al margine dalla mutata condizione sociale del paese (il crollo di Wall Street e delle mitologie capitaliste, la grande crisi, la Depressione) e costretto a mettersi in fila tra i venditori nella città del cinema come, qualche anno dopo, toccò anche a Brecht di fare.



Il più interno dei ritratti di Fitzgerald nei suoi anni californiani è senza dubbio quello lasciato da Budd Schulberg nel romanzo I disincantati. Schulberg era figlio di un produttore cinematografico ma anche un esplosivo rappresentante del nuovo realismo impegnato prodotto dalla crisi del 1929, membro di una generazione sconvolta dal crollo del capitalismo che riteneva inarrestabile, e fidente nell’inevitabilità del socialismo. Ma è stato anche autore di un ritratto non troppo romanzato del produttore cinematografico che Fitzgerald ha rappresentato in The last tycoon, Irving Thalberg. Uscirono nello stesso anno, 1941, nel pieno della guerra grazie alla quale gli Usa riconquistarono il primato economico salvando pro tempore il capitalismo: Perché corre Sammy? e, postumo, The last tycoon, che si chiamava così prima che ne venisse stabilita un’edizione filologica da Matthew Bruccoli con il primitivo titolo di The love of the last tycoon.



Anche Sheilah Graham, giornalista, ultima compagna dello scrittore, scrisse un libro (prevedibile) su quegli anni e sulla decadenza e fine di Fitzgerald, che venne tradotto in un film (convenzionale) interpretato da Gregory Peck e da Deborah Kerr. E da The last tycoon fu finalmente tratto nel 1976 un film fedele e partecipe di Elia Kazan, che il meglio e il peggio di Hollywood conosceva assai bene e che aveva avuto Schulberg tra i suoi amici e collaboratori più assidui e sapeva di Fitzgerald l’essenziale e il possibile, se pur non lo aveva conosciuto o intravisto. Lo assistette nell’impresa (a cui in fin dei conti non fu di giovamento) Harold Pinter, il cui stile e la cui ispirazione erano troppo diversi da quelli di Kazan. Tre generazioni, infine – Fitzgerald, Kazan/Schulberg, Pinter – fortemente segnate dal loro tempo ma in sostanza inconciliabili. I rappresentanti delle prime due erano dei sopravvissuti ai quali, al contrario dell’eroe o antieroe di The last tycoon Monroe Stahr/Irving Thalberg, non accadde di morire nel momento del trionfo, anche se la “corsa” di Stahr (e probabilmente di Thalberg) aveva in sé, come ha capito e narrato Fitzgerald, i germi della disfatta. Perché i tempi mutano sempre, e perché nel mondo del capitale la lotta per la supremazia non ha tregua e vecchie e nuove cavallette cercano ossessivamente di divorare quelle sotto le cui ali sono cresciute. L’anarchia del capitale di cui parlò un certo Marx.



Leggemmo per la prima volta in Italia The last tycoon (non ricordo con che titolo) nella traduzione di Paolo Gobetti sulla rivista Cinema nuovo, diretta da Guido Aristarco, nemico di Hollywood e amico del Pci. La mia prima lettura del Grande Gatsby fu quella della prima traduzione italiana, pescata su una bancarella, che comparve nella collana mondadoriana da edicola dei Romanzi della Palma, narrativa destinata a un pubblico popolare e femminile. E sì, Fitzgerald, accanito perfezionista che sapeva quel che voleva, non disprezzava affatto il pubblico della mass culture che lo aveva arricchito e reso famoso, ma aveva della scrittura un tale rispetto da limare i suoi romanzi con continue revisioni censure aggiunte, perché tutto doveva essere chiaro e però denso, anzi chiarissimo e densissimo, perché il rispetto della propria arte comportava per lui anche il rispetto dell’arte della comunicazione. L’equilibrio, anzi l’armonia tra l’esigenza di una personale visione e una personale misura, inconsciamente o consciamente percepibili dai suoi lettori, ci sembrano oggi qualcosa di miracoloso, rispetto alla dominante letteratura del nuovo secolo, e rileggere Fitzgerald dovrebbe costituire per ogni aspirante scrittore una lezione di professionalità che nasce, senza sovrapporglisi, dal rispetto di una vocazione che è anche un mestiere.



Fitzgerald non era un grande sceneggiatore cinematografico perché restava troppo scrittore e sono particolarmente notevoli le considerazioni che su questa sua attività ha fatto in alcune interviste il producer e sceneggiatore Joseph L. Mankiewicz che lo ebbe alla Metro Goldwyn Mayer tra i suoi collaboratori e/o dipendenti. Le loro differenze e divergenze fanno pensare a quelle di Bertolt Brecht con Fritz Lang, maestro di cinema come l’altro lo era di teatro, al tempo di Anche i boia muoiono («questo il pubblico lo accetta, ma questo no» ribatteva Lang alle proposte di Brecht facendolo imbufalire) ma certamente non era un denigratore del cinema come forma d’espressione degna proprio in ragione della vastità del suo pubblico e delle potenzialità di farlo maturare nel mentre lo si divertiva, lo si consolava. È infatti l’ambiguità del suo sguardo su Hollywood, di scrittore che ha qualcosa da dare a Hollywood ma che accetta, in cambio del benessere, di averne anche molto da imparare – vedi la geniale lezione di Stahr agli scrittori che ha assunto – a far sì che egli capisca così bene Monroe Stahr nella sua funzione pubblica come nella sua intima insoddisfazione. Produrre abilissimamente sogni for the millions non basta a renderlo felice, e la sua infelicità ha radici esistenziali che il mondo dei sogni mistifica e addormenta: la morte della donna amata, prima ancora che la spietata rivalità dei suoi pari. In qualche modo lo scrittore partecipa della solitudine del personaggio, ed è questo, indubbiamente, a fare di The last tycoon e del protagonista Monroe Stahr, un’opera e un personaggio all’altezza del Grande Gatsby o di Tenera è la notte con il suo Dick Diver: Stahr e Gatsby meno autobiografici di Diver.



Su Hollywood è fiorita una letteratura che ha dato un altro capolavoro di segno opposto a questo, Il giorno della locusta (1939) di Nathanael West, un grande scrittore meno immediato e realistico di Schulberg e segnato dalle esperienze e teorie europee degli anni Venti e Trenta; il più vicino, si potrebbe dire, alle avanguardie come ad Adorno, e interessato più agli effetti del mito di Hollywood – dell’industria della cultura di massa – sugli illusi che vi accorrono, che non ai suoi artefici. Ed è bene ricordare anche Non si uccidono così anche i cavalli? (1935) di Horace McCoy, L’inferno dorato (1938) di John O’Hara e il più tardo e, se così si può dire, moralistico e avvocatesco Il parco dei cervi (1955, in pieno maccartismo) di Norman Mailer. West morì a 37 anni un giorno dopo Fitzgerald, che ne aveva solo 44 ma che sembra a noi e sembrava molto più vecchio di quanto non fosse: appunto un sopravvissuto.



Fitzgerald fu tra i pochi scrittori finiti nella fabbrica di salsicce hollywoodiana (così Stroheim quando ne venne respinto) a capire che anche di sogni, e di immagini stereotipe, e tuttavia su base consciamente o inconsciamente archetipica, si vive, e vivevano le masse e plebi del Novecento, sia perché nei sogni cominciano le responsabilità, come certifica un gran bel racconto sul cinema di Delmore Schwartz, sia perché è tramite il cinema (si pensi al fenomeno Charlot, l’unico artista nella storia universale ad avere avuto, anche grazie al muto, un pubblico così immenso) che le masse di quel secolo hanno potuto conoscere il mondo.



C’è stata un’epoca in cui la cultura di massa rubava alla cultura popolare i suoi modelli e le sue strutture narrative riproponendoli con l’aggiunta di una visione d’autore, e in qualche modo di una pedagogia d’autore. Era questa, per intenderci, l’arte in cui eccelsero i Ford e i Monicelli, i Renoir e i Kurosawa, e ancora i Kazan e i Truffaut, e tanti altri come loro. E di questo processo, pur venendo da ambizioni di alta cultura e non di cultura di massa, Fitzgerald dimostra in The last tycoon di avere perfettamente compreso la grandezza, o meglio, l’importanza, pur in una sorta di naturale impossibilità di adeguarvisi perché troppo forte era nel suo intimo la distanza tra arte e mercato. I detrattori del cinema hanno facilmente dimenticato che per the millions di tutto il mondo, in grandissima maggioranza analfabeti, il cinema ha avuto per almeno settant’anni del Novecento, dagli anni Dieci ai Settanta, una funzione primaria di alfabetizzazione. Sogno e realtà indissolubilmente legati e indissolubilmente conflittuali, perché «nei sogni cominciano le responsabilità». Ma poi tutto è cambiato, e il dialogo tra i produttori di sogni e i bisogni del loro pubblico si è radicalmente interrotto. Sul cinema creato dagli uffici studi e dagli uffici pubblicitari della grande finanza, che impone al pubblico i sogni che deve sognare, sulla Hollywood delle attuali marionette, sulle figure ignobili dei manipolatori di sogni, si aspetta ancora un grande romanzo, e l’unico che si sia avvicinato a raccontare non il mondo della comunicazione manipolante ma i modi di reagirvi è stato forse, dopo Vonnegut, il Pynchon di L’incanto del lotto 49 (1966).



E' la comprensione della complessità psicologica e civile del parvenu Monroe Stahr (che viene dal mondo degli immigrati, e se ebrei o altro, come nel cinema, è del tutto secondario) dentro l’America del suo tempo e della sua interna insoddisfazione - «perché corre Sammy?» - a fare di The last tycoon un grande romanzo, anzi un capolavoro al pari degli altri due grandi romanzi fitzgeraldiani. Esso ci torna oggi, a qualche decennio dalla fine di quel mondo, imponendoci una nuova lettura, e suscitando un nuovo amore per uno scrittore che ha capito come pochi le contraddizioni del suo secolo, e ne è stato distrutto.
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