Avallone a Massenzio: "L'amore e il test (di gravidanza)"

La scrittrice Silvia Avallone leggerà il suo racconto domani a Massenzio
di Silvia Avallone
8 Minuti di Lettura
Martedì 15 Maggio 2012, 10:05 - Ultimo aggiornamento: 16 Maggio, 15:56
Saranno Silvia Avallone e Alessandro Piperno a inaugurare domani alle 21 l’XI edizione del Festival Letterature alla Basilica di Massenzio, dedicato al tema Semplice/Complesso.




Ci saranno anche il musicista Michael Nyman, e Ambra Angiolini con un omaggio a Italo Calvino. Anticipiamo il racconto inedito di Silva Avallone, con Acciaio (Rizzoli) vincitrice tra gli altri del Campiello opera prima e seconda allo Strega 2010, intitolato 451 anime.





di Silvia Avallone



Sì, diceva il test. Un trattino azzurro, elementare, come una virgola tra due parole. C’era un prima, adesso, e un dopo. Lei stava nel mezzo, barricata in bagno da più di un’ora. Il paese contava 450 anime a malapena.


Se se ne fosse aggiunta una, se ne sarebbero accorti tutti. Rosa si lasciò cadere sul bordo della vasca, ci scivolò dentro. Continuava a stringere il responso tra le mani, il risultato della sua disubbidienza. Il rumore della legna spaccata dai suoi fratelli cadeva a intervalli regolari fuori dalla finestra.

Sentiva le loro voci tra un ceppo e l’altro, che imprecavano contro qualcosa o qualcuno, con la rabbia incisa nelle corde vocali.

Non si decideva a uscire. L’accetta calava come una ghigliottina nell’aria fredda dell’inverno; e qui, nella vasca da bagno, Rosa teneva le mani giunte come se pregasse. Il suono delle cose reali era questo tonfo cieco, e sordo come le botte di suo padre.

Ma lei non voleva farla, quella fine.

E poi c’era lui. Bello come Brad Pitt, alla sagra di Camandona. Appoggiato come un cowboy alla ringhiera, con la birra in mano. Era il principio dell’estate quando lo aveva conosciuto. Prima di allora, non aveva mai visto un uomo nudo.

Cercò di immaginare la cena, il volto di suo padre scavato dalla luce fioca del lampadario che colava a piombo sulla tavola. Si vide, come in sogno, sillabare quella frase – io sono questa cosa, papà, anzi: sono due cose – davanti al suo muso rincagnato da scimmia, che quando era stata bocciata la prima volta l’aveva chiusa in cantina una notte intera. E i suoi fratelli che balzavano in piedi, le sedie scaraventate contro il muro: chi è? Dicci chi è stato? Figlio di puttana, io lo ammazzo.

Non devi pensare, si disse. Devi tagliare la corda.

Anche se lui ne avrebbe trovate altre mille come lei. Pallide e scipite, di quelle che aspettano ai bordi della pista alle sagre di paese. La cosa più probabile che le avrebbe detto era: prego, quella è la porta. Però adesso lei era due, non era più una cosa soltanto.

La cucina sembrava vuota, vuota come ogni giorno.

La luce bluastra del televisore ristagnava come dentro un catino. Sonia, la compagna di suo padre, affondava il gigantesco e tumefatto sedere nella poltrona. Compilava un cruciverba, ogni tanto gettava un occhio alla televendita che passava frusciando su un’emittente locale.

Rosa sgattaiolò nel corridoio, fece giusto in tempo a prendere il giubbotto e le chiavi della macchina. Aveva fretta, adesso. Non sapeva dove andare, non sapeva niente. Ma il test era positivo, ed era come correre a trecento all’ora in autostrada.

– Dove stai andando?

Si bloccò sulla porta, impietrita dall’indifferenza di quella voce. Stava uscendo così com’era, con i capelli non lavati, la felpa della tuta sopra un paio di jeans sbiaditi.

– Vado a fare un giro – disse.

Teneva una mano sulla maniglia della porta, e l’altra in tasca che stringeva le chiavi della macchina. Lo stick era nascosto in fondo alla borsa, sepolto da tutte le cose indispensabili e superflue: la carta d’identità, la patente; le venne in mente che forse l’aveva fatto apposta a cacciarsi in questa situazione.

– E io cosa gli devo dire, a lui? Che sei in giro con qualche stronzo?

Il pensiero di suo padre le riattraversò la mente come una gelata notturna.

Non avrebbe capito, le avrebbe solo spaccato il naso. Aveva poche ore per fuggire. Aveva un motivo per farlo, adesso. E forse poteva spingersi fino a casa di Marcello, suonare alla porta. Non avrebbe voluto vederla, forse. Magari era solo l’ennesima ragazzina che si era portato su, al belvedere, con la scusa di guardare le stelle. (...)

(…) lui se ne stava sdraiato sul letto a uccidere zombie, ma neppure i colpi del mitra in dolby surround riuscivano più a dargli soddisfazione.

La partita di calcetto il giovedì, i sabati sera su e giù per la provinciale deserta. Sua madre che gli cercava i preservativi nel cassetto per il gusto di mettersi a piangere ogni tanto. E il tempo che ti lavora ai fianchi, implacabile.

Piovigginava. Dal rettangolo della finestra poteva vedere una quindicina di mucche pascolare davanti a un relitto industriale del secolo scorso.

E dire che c’era, una ragazza. Una che lo faceva sentire vivo.

Quando se ne stavano abbracciati e soli in una camera d’albergo, soli e in silenzio, circondati dai rumori degli altri. Gli piaceva tenersela lì, rannicchiata sul fianco. Come sapeva ascoltarlo, come sapeva essere paziente quando lui le raccontava le sue ambizioni mancate, un futuro da calciatore bruscamente interrotto. Tutto a ramengo per un cavolo di menisco. Fuori c’era la nebbia, le risaie vuote. E loro due erano insieme, nella camera a ore, con il tempo che passava e il calore dei corpi vicini. (...)

Parcheggiò davanti a una palazzina a due piani. Il numero era quello che lui le aveva scritto su un bigliettino. Scalpitava, elettrizzata dalla paura.

Venne ad aprirle una donna. Era secca come un chiodo, quasi uno scheletro dentro un immenso grembiule frusto che sapeva di brodo tenuto sul fuoco per ore.

– Mio figlio è di sopra – disse, squadrandola con occhi ostili. – Tenete la porta aperta – aggiunse subito dopo, – non voglio porcate in casa mia.

Rosa saliva la scala buia e senza finestre, calpestava il pavimento di linoleum come se attraversasse un fiume gelido e melmoso. Non era mai entrata in quella casa. Del resto, lo conosceva solo da cinque mesi. Dentro di lei combattevano due titani, il fantasma grasso di suo padre e un principio affilato di rivoluzione. Rosa, la somara della scuola. Due mostri alcolizzati al posto di due fratelli normali. Il padre squilibrato, e quella Sonia, con i suoi cruciverba, quella sua faccia da sberle.

La porta era socchiusa. La luce era accesa. E all’interno non si sentiva volare una mosca. Le avrebbe detto: tu, cosa sei venuta a fare qui? L’avrebbe guardata male, con indifferenza. Rosa tremava, adesso. Ma ormai era fatta. Non aveva più scelta.

Scostò la porta, trattenne il respiro.

Poi Marcello alzò gli occhi e la vide. Così com’era, disarmata, sulla soglia della sua stanza.

– Ehi... – disse incredulo. Fece per alzarsi. Ma si accorse che era senza pantaloni, allora si allungò la maglietta fino alle ginocchia, come se si vergognasse. Come se lei non lo avesse mai visto nudo prima d’ora.

– Rosa... Che ci fai qui?

Rimestava in mezzo alle lenzuola, e poi sotto il letto, alla ricerca di qualcosa da mettersi addosso.

– Vieni.

Rosa non aveva niente da perdere. Entrò nella stanza. Non era così che se l’era immaginato, il posto dove viveva Marcello. La puzza di fumo, la PlayStation accesa. In fondo, anche lui era come lei.

– Chiudi la porta – le disse.

Rosa scosse la testa: – Tua madre non vuole.

Marcello fece finta di niente, si accese una sigaretta e riprese a guardarla. Non era bella; però aveva qualcosa nello sguardo, qualcosa di acceso e vivo, specialmente stasera. Conosceva la marca delle sue mutande, la taglia del reggiseno, e poco altro, nascosto nel suo modo di muoversi. Un paio di fughe in orario pomeridiano non bastano a costruire una relazione. Ma c’era stata quella volta, su a Camandona. Quando avevano parlato a lungo, fin quasi a sera, si erano presi la mano su un tronco di castagno rovesciato, e lui si era sentito, per un istante, come se davanti avesse un futuro.

– È successo qualcosa? – le chiese, messo in allarme dal suo silenzio.

Non si era neppure tolta la giacca, non aveva detto ciao né permesso.

Forse, stava pensando Rosa, mi sono semplicemente lasciata abbindolare come il più stupido dei cani, che appena allunghi la mano lui viene.

Solo che adesso lei non era più quella ragazza. Non aveva più niente a che fare con le gonne slacciate nei parcheggi. Quando Marcello fece per baciarla, lei lo scansò con un gesto secco della mano.

– Sono venuta a dirti – sillabò – che sono incinta.

Marcello cambiò espressione di colpo.

Allora lei scattò in piedi, alzò la voce: – È inutile che provi a girarci intorno, perché il bambino è tuo. È tuo di sicuro. E io adesso non posso più tornare a casa. Quindi due sono le cose. O vieni via con me, o ti saluto.

Una randellata. Marcello lasciò cadere per terra la sigaretta, rimase con la bocca aperta e il respiro infilzato. Come in un flash vide il pancione, poi il bambino. La carrozzina, il triciclo, il battesimo, e la prima comunione.

Era una cosa immane, al di là del bene e del male. Stava capitando a lui. Il nullafacente, il disoccupato, con venticinque anni da buttare alle ortiche. (...)

– Ma tu sei sicura di quello che dici?

Lei infilò una mano nella borsa, la rovistò con furia. Tirò fuori un oggetto strano, gli disse: – Tieni, se non ci credi.

Allora lui vide quel trattino, che era indecifrabile e semplicissimo allo stesso tempo. Ci mise un attimo a realizzare. Una frazione di secondo in cui gli si affollarono in testa tutti i pro e i contro. La quantità esponenziale dei contro, e la minima, sconosciuta, percentuale dei pro.

Alzò gli occhi dal test, che voleva dire tutto e niente. Il volto di Rosa, adesso, era ancora più pallido del solito, ma emanava un’attrazione misteriosa, una specie di astuzia micidiale. E cosa aveva fatto, lui, in tutto questo tempo? Cosa aveva combinato fino a oggi? Adesso, c’era questa ragazza che gli era sempre piaciuta, con i capelli spettinati e le lentiggini sul naso, che gli diceva: Tieni, leggi questa cosa. Leggi bene, perché c’è anche il tuo nome lì dentro.

Marcello raggiunse l’armadio, cercò qualcosa da mettersi addosso. Si era fatto incastrare, non c’era niente di più facile al mondo. S’infilò un paio di jeans sopra i pantaloni del pigiama, guardò l’ora, guardò Rosa.

Lei sorrideva, come una che ha appena tagliato il traguardo.

© Silvia Avallone, 2012
© RIPRODUZIONE RISERVATA