Addio a Cesarina Vighy, vinta dalla Sla:
trasformò la malattia in un caso letterario

Cesarina Vighy
di Renato Minore
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Domenica 2 Maggio 2010, 14:50 - Ultimo aggiornamento: 30 Maggio, 23:42
ROMA (2 maggio) - Ma io, la larva cocciuta ho provato l’estasi della scrittura, scrivo e scrivo con una facilit e una felicit mai provate prima, quasi ho dimenticato la sfida a resistere per riversare nel mio libro quello che di bello e di brutto che mi è capitato nella mia vita, entro ed esco dalla malattia come un fantasma attraversa i muri, beffando chi si ferma dinnanzi a una porta chiusa».



Così aveva scritto nel suo libro d’esordio, “L’ultima estate”, uscito lo scorso anno; e così si era confessata in una intervista nata sulla scia del suo straordinario successo che ne aveva fatto un autentico caso letterario (vincitrice del premio opera prima al Campiello e finalista allo Strega): «La malattia mi ha dato materiale, momenti di gioia creativa in cui dimenticavo la realtà che mi aspettava, sempre più difficile, sempre più buia. Mi ha dato soprattutto una maggior sensibilità, una maggior capacità di capire cose e persone: ero quasi spaventata dal poter leggere in loro come in un libro aperto».



Ma alla fine la malattia – il giocatore invisibile - ha vinto la sua battaglia: Cesarina Vighy è morta ieri a Roma all’età di settantatre anni. Aveva fatto in tempo a vedere la prima copia del suo secondo libro, “Scendo. Buon proseguimento” appena uscito sempre da Fazi: un’insieme di microtesti, una second life affidata alla posta elettronica che racconta per frammenti il parallelo progredire di una sindrome che priva a poco a poco della parola e la genesi, l’ideazione, la stesura di quel suo libro, destinato senz’altro a sopravvivere all’effimera stagione dei premi letterari.



Esordiente senior, dopo aver passato una vita tra i libri, la Vighy non aveva mai “osato” con la propria scrittura, almeno quella creativa. La malattia, la Sla che si era manifestata cinque anni fa, l’aveva portata ad avere problemi con i parola e la deambulazione. La scrittura era arrivata in soccorso per raccontare cos’è il dolore e la sofferenza, che non è solo legata al corpo e alle cure mediche. Così è nato “L’ultima estate”: «Camminare eretti e parlare, due facoltà che hanno fatto della scimmia un uomo: io le sto perdendo entrambi». Come un ironico, a volte beffardo “narratore onnisciente”, con tratti di bruciante condensazione aforistica, la voce della protagonista Zeta, malata poco più che settantenne, regola il flusso delle parole. Il suo universo di conoscenza diretta e immediata è ridotto a una porzione assai esigua: la stanza dove è immobilizzata e, fuori, i rami del platano, la nidiata di merli, la visione di ciò che ancora perpetua lo stupore della vita nel ciclo naturale di stagioni, rinascita, morte.



La Signora Zeta, ovvero Amelia detta Pucci, il suo personaggio, ha la stessa malattia neurologica, non è altro che il suo doppio, una vita che si esprime attraverso un’altra vita, un’altra voce in modo speculare. Da questo “buco nero” davvero indicibile – la sofferenza, la malattia, l’orizzonte imminente della fine – la voce nuova del dolore ha trova i toni giusti, per raccontare la propria storia inventando uno sguardo su di sé per meglio circoscrivere lo spazio su cui si costruisce il racconto autobiografico, con il comico-tragico balletto nell’avvicendamento degli medici specialisti, il corpo a corpo con il morbo, il viaggio intorno alla propria camera come unico vissuto possibile...



Convinta con Charlot che la vita in primo piano sia una tragedia, in campo lungo una commedia, alternando la voce straziata che si racconta alla voce postuma che la racconta, Cesarina Vighy scrive una sorta di seducente lettera-verità a sé stessa. Lacerante, ironica e feroce, dolorosamente spiazzante, solitaria ed anche estrema. «Tutto è stato nuovo per me e mi è apparso una specie di risarcimento per l’ingiustizia fuori misura che mi era toccata. Anche oggi, mi stupisco per la stranezza del Caso, che sembra dare con una mano quel che toglie con l’altra».
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