Il suo cellulare squilla con insistenza. Il display dello smartphone visualizza “numero sconosciuto”. Ramla Ali non risponde, «credevo fossero i soliti call center», che a quanto pare non affliggono solo i consumatori italiani. Alla fine cede. «Ciao Ramla, sono Meghan», dall’altra parte. «Meghan? Non conosco nessuna Meghan...». «Meghan, la Duchessa del Sussex». Siamo nel settembre del 2019 e Meghan Markle, scelta da Vogue come guest editor per il numero intitolato «Forces for change», seleziona Ramla fra le 15 donne che, a livello globale, meglio rappresentano il concetto. Somala, rifugiata politica nel Regno Unito, musulmana che scopre senza paura corpo e capelli, sia quando combatte sul ring che quando posa da modella: Ramla Ali non è solo una forza per il cambiamento, è la forza in senso assoluto. La capacità estrema di reagire sempre e comunque, anche quando la vita ti strappa via uno dei sogni che aspettavi da sempre. Il 12 dicembre avrebbe avuto l’onore di combattere nel sottoclou del mondiale dei pesi massimi tra Anthony Joshua e Kubrat Pulev alla O2 Arena di Londra. Sarebbe stato il suo secondo match da pugile professionista, il primo con i riflettori puntati addosso. Ma il Covid non ha risparmiato nemmeno lei. Martedì scorso i primi sintomi, l’isolamento precauzionale, poi la positività accertata dai tamponi. «Non era il modo in cui avrei voluto finire l’anno, ma sarò sempre grata al 2020 per le opportunità che mi ha regalato e non vedo l’ora che arrivi un eccitante 2021». È finita ko Ramla, ma si è già rialzata. E cambierà ancora i suoi programmi, adattandosi, come ha fatto quest’anno durante il lockdown, sempre inseguendo quel sogno che la accompagna da quando ha debuttato sul ring: essere il primo pugile somalo, uomo o donna, a qualificarsi per le Olimpiadi.
D’altra parte la vita ha riservato alla Ali prove ben più dure da superare di un incontro rinviato. E lo ha fatto da subito, da prima ancora che avesse una memoria sufficiente a lasciare cicatrici che non sarebbero andate via mai. Mogadiscio, fine degli anni Ottanta. La guerra civile flagella il paese e la famiglia di Ramla. Una mina esplode nel giardino di casa sua e uccide il fratello di 9 anni. «Me lo ha raccontato mia madre», dice lei e non cita mai il nome della mamma né quello del papà: da quando è diventata un personaggio teme che in Somalia qualcuno possa risalire ad amici e parenti e rapirli per chiedere un riscatto. Quella tragedia - per terribile che possa essere - è la svolta della vita di Ramla. I genitori scappano con lei e gli altri 5 fratelli e si trasferiscono in Kenya. Lavorano per diversi mesi per mettere da parte i soldi e poi raggiungono da rifugiati la Gran Bretagna.
Di Ramla non si sa nemmeno quando sia nata.
ASCESA RAPIDA
Nel 2015 è già campionessa nazionale, prima donna musulmana a riuscirci. Ma l’incontro va in tv ed è allora che la famiglia scopre il suo segreto. Ramla è costretta a lasciare la boxe, ma è una parentesi breve: l’intervento di uno zio convince i genitori a darle la possibilità di esprimersi con i guantoni. E, da allora l’ascesa non si ferma più. Ali vince tornei su tornei e inizia a inseguire i Giochi di Tokyo. La notano gli sponsor, marchi sportivi e di bellezza, compresa una nota casa di prodotti per capelli: già, proprio lei che dovrebbe coprirli. La nota l’agenzia di Anthony Joshua che la prende nel clan. Ma lei resta Ramla. Da Londra riesce a far nascere a Mogadiscio una federazione di boxe che non c’era mai stata ed è la prima tesserata: vuole combattere per il suo Paese. Nel Regno Unito, una volta a settimana, tiene corsi di autodifesa gratuiti per donne, principalmente musulmane. Diventa ambasciatrice Unicef. Nel frattempo la pandemia fa slittare le Olimpiadi. «Ho 31 anni, non posso restare tra i dilettanti ancora, devo iniziare a monetizzare i pugni in faccia che prendo da una vita», dice annunciando il salto tra i pro. Contestualmente annuncia che verserà a Black Lives Matter il 25% di tutte le borse intascate per i combattimenti da professionista. Il debutto arriva il 1° novembre, vittoria ai punti contro la tedesca Hubmayer. Il 12 dicembre sarebbero arrivati anche i riflettori del grande evento. Pazienza. In fondo il vero appuntamento si chiama Tokyo 2021.