Il sud dimenticato può fare molto contro la crisi

di Isaia Sales
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Mercoledì 29 Ottobre 2014, 00:35 - Ultimo aggiornamento: 00:50
Cos’altro deve ancora succedere nell’andamento dell’economia meridionale per suscitare una minima reazione nella classe dirigente italiana?



In quella classe dirigente che vede uomini e donne del Centro-Nord occupare ruoli decisivi nel governo del Paese, nelle associazioni imprenditoriali e sindacali, nel sistema bancario e finanziario e delle imprese, cioè in tutti quei ruoli da cui sarebbe assolutamente necessario aspettarsi una risposta, uno scatto di fronte al disastro di questi sei lunghissimi anni di crisi che la Svimez, con la serietà e puntualità di sempre, ancora una volta segnala.



Riporto solo alcuni dei titoli del rapporto di quest’anno: “Economia meridionale a rischio eutanasia”; “Al Sud si conferma il calo più alto nei consumi (di 15 punti percentuali quelli alimentari e di 16 punti quelli per la cura delle persone e per l’istruzione”; “Se cadono gli investimenti in Italia, nel Sud è il crollo”; “La crisi non ha risparmiato nessuno dei settori dell’economia meridionale. “Nell’industria siamo ormai alla desertificazione”. E le previsioni per l’anno prossimo sono ancora negative: neanche nel 2015 il Sud sarà fuori dal periodo più nero degli ultimi vent’anni. L’occupazione è scesa al livello del 1977, sotto la soglia dei 6 milioni di addetti. La caduta degli investimenti industriali è di oltre il 50%. Il reddito è tornato a quello di 10 anni fa. Di fronte a questi dati può essere ancora tollerata la sufficienza, l’indifferenza, l’approssimazione delle classi dirigenti nazionali? Anche ai fini del loro più stretto interesse?



Forse non è chiaro a tutti che il permanere di questa situazione, in un mercato nazionale interdipendente, pregiudica la stessa ripresa dell’economia del Centro-Nord. Voglio ricordare questo semplice dato: 100 euro di investimenti effettuati al Sud producono un beneficio (effetto “dispersione” in termini tecnici) pari a 40,9 euro nel Centro-Nord, mentre al contrario per ogni 100 euro investiti al Centro-Nord il beneficio per il Sud è di soli 4,7 euro. Ciò dimostra inequivocabilmente che una buona spesa in investimenti nel Mezzogiorno è un’ottima spesa per l’intera economia nazionale. Perché la ripresa nel Centro-Nord non potrà contare solo sui maggiori ordini del mercato estero, ma dovrà sperare in una solida espansione dei consumi interni e quindi anche di quelli meridionali che hanno, come abbiamo visto, un effetto moltiplicatore sul quel mercato.



Perché tanta miopia? Possibile che questo lungo ventennio di veleni antimeridionali abbiamo ottenebrato le menti più lucide e le coscienze più responsabili dell’intellighenzia, della finanza, del sistema delle imprese e della politica del Centro-Nord? Fare a meno del Sud (e del mercato nazionale) puntando solo su di un’integrazione con le economie più forti del Centro-Europa si sta dimostrando un azzardo, oltre che un calcolo antieconomico per il sistema delle imprese italiane. Forse nel mondo politico molti pensano che la situazione non è poi così drammatica: se il Sud non esplode socialmente vuol dire che non si è ancora toccato il fondo e i dati non sono attendibili. Il paradosso è che non viene considerato un elemento positivo la “compostezza” con cui i meridionali stanno reagendo alla crisi. Ecco, poniamoci la domanda: perché il Sud non esplode in presenza di una situazione economica così drammatica? Perché in effetti ha già reagito, le famiglie meridionali si sono “acconciate” a nuovi equilibri, come sempre avviene nel corpo sociale quando si determina la perdita di posizioni di benessere precedenti. Nel Sud la reazione alla crisi non è l’esplosione ma l’implosione. Si determinano cioè equilibri al ribasso. In fondo i meridionali sono più abituati ad acconciarsi a situazioni nuove e impreviste rispetto ai settentrionali che vedono la loro vita solo come una crescita esponenziale di opportunità, per cui non sanno reagire al meglio agli andamenti a zig zag di essa.



La perdita del record della natalità nel Sud è uno di questi nuovi equilibri che mettono in discussioni abusati luoghi comuni. Non si fanno figli perché le condizioni economiche non lo permettono, rispetto alle generazioni precedenti che facevano figli a prescindere da ciò. In questi nuovi equilibri un ruolo fondamentale l’ha svolta la famiglia meridionale, quella famiglia che per tanti studiosi è stata bollata come l’origine dei guai e delle degenerazioni culturali ( il cosiddetto “familismo amorale”) e che invece rappresenta nei fatti un perno fondamentale attorno a cui nei periodi di crisi si riscrive lo stare insieme della collettività e si ridefinisce il suo assetto. Quante (brevissime) vacanze tutti insieme, quanto sostegno alle giovani coppie dalla pensione dei genitori, quante iscrizioni all’università con i soldi dei nonni, quante loro case trasformate in asili per chi non si può permettere la retta, quante convivenze di ritorno (coppie che non ce la fanno con un solo reddito e tornano a vivere in famiglia)? Se fino a vent’anni fa un solo stipendio o salario era in grado di mantenere almeno cinque persone grazie al costo della vita più basso, oggi se non c’è una integrazione tra salario, stipendio e pensione, non si riesce a garantire una vita dignitosa a quelle stesse cinque persone. La stessa impressionante emigrazione che ha ripreso a ritmi pari a quelli del dopoguerra non è un aiuto ai familiari che restano ma un aggravio: questa è la prima emigrazione dal Sud che non permette l’invio di rimesse da parte di chi va via (con quello che guadagnano a stento si pagano vitto e alloggio) ma viene sostenuta dai soldi di chi resta. E dunque è un’emigrazione che non è in grado di sostenere l’economia dei rimanenti. Tutto ciò non sarà, comunque, senza conseguenze sulla libertà dei singoli, sul loro senso di naturale emancipazione dai genitori, inciderà sugli stili di vita e sul rapporto con la società e con le istituzioni. Ma c’è un altro ammortizzatore sociale dalle conseguenze devastanti: il peso crescente delle attività illegali, sia di sopravvivenza sia di arricchimento. Una nazione che lascia il Sud in queste condizioni sa, nei fatti, di assegnare un ruolo equilibratore anche alla criminalità. È inutile girare attorno alle parole: checché se ne dica, nel Sud da decenni la criminalità non ha consenso culturale ma solo economico. Chi ci guadagna con essa l’ammira, chi ne è fuori la disprezza. Ultimamente all’economia illegale, in gran parte controllata dalla criminalità, si è dato il riconoscimento ufficiale di concorrere al Pil. Permanendo questa drammatica situazione economica, la si legittima ancora di più come fattore di tenuta, come da secoli avviene da parte delle classi dirigenti locali e nazionali per quanto riguarda la metropoli napoletana.