Duello tra Renzi e minoranza Pd. Il premier: l'Ulivo? Persi 20 anni. Fassina: se il vuoi voto dillo

Matteo Renzi
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Domenica 14 Dicembre 2014, 11:19 - Ultimo aggiornamento: 15 Dicembre, 08:20

Non sarò io a rompere il Pd o a cacciare qualcuno dal partito, ma non riusciranno a logorarmi o rallentarmi con imboscate «organizzate per corrente» e camuffate da «questioni di coscienza».

Chi si aspettava uno 'show down' in assemblea sarà rimasto deluso, ma se Matteo Renzi sceglie di non affondare il colpo sulla minoranza Pd, assicurano i renziani, è proprio perchè ha ben chiara la direzione di marcia. E sa che per arrivarci la migliore arma è un Pd che il più possibile unito affronti il delicatissimo tornante che attende il governo e il Parlamento nei primi mesi del 2015, tra riforme, elezione del capo dello Stato, nuovo 'esamè in Ue.

Andrà avanti per la sua strada, che gli oppositori interni lo vogliano o no, Matteo Renzi.

Lo dice apertamente in diversi passaggi dei suoi interventi di apertura e chiusura, perchè non ci sia ombra di dubbio: «Non staremo fermi nella palude per guardarci l'ombelico», scandisce. E spiega di sentire su di sè la «responsabilità» di cogliere la finestra di «opportunità» che si è aperta per cambiare il Paese. Dunque, se dialoga e ascolta tutti gli interventi («Tranne due e mezzo, per motivi fisiologici») dell'assemblea e rivendica di non aver mai portato avanti il partito «a colpi di maggioranza», non si nega qualche stoccata, anche a un «santino» come l'Ulivo, per chiarire che gli 'agguatì parlamentari su Jobs act e riforme non hanno avuto l'effetto di intimorirlo o di fargli cambiare il passo.

Sono ingenerose, è convinto il premier, le accuse di autoritarismo che gli vengono rivolte da chi, come Stefano Fassina lo accusa di essersi fatto dettare il programma economico dalla Troika e poi sale sul palco e gli punta il dito contro lamentando di esser vittima di «caricature». Ma nel Pd renziano, assicura un esponente del Nazareno, non andrà mai in scena uno scambio come quello del 'che fai, mi caccì tra Fini e Berlusconi. Tanto che nella replica il segretario ascrive alla «passione» politica dell'oppositore interno il fatto che abbia «alzato i decibel».

A maggior ragione se è proprio la visibilità da scontro politico che alcuni della minoranza cercano, come osserva Roberto Giachetti, «stando qui a fare interdizione». Certo, sale l'insofferenza dei renziani verso una minoranza che «fa chiaramente una partita di logoramento» e con la quale si deve trattare sempre più «come se fosse un altro partito». E resta la tentazione (Giachetti ne fa una richiesta costante) di tornare al voto. Ma Renzi guarda al percorso tracciato e ai prossimi passaggi, a partire dalla legge elettorale e la necessità di eleggere un nuovo presidente della Repubblica. In quelle occasioni il Pd in Parlamento dovrà muoversi come un'unica falange per non tornare a farsi del male come in passato. E il segretario-premier rassicura sul metodo: «Quando sarà il momento il Pd, dopo una discussione interna, andrà a parlare con gli altri partiti e individuerà il successore».

Se la minoranza vuole la rottura non pensi che a provocarla sia Renzi: se ne dovranno assumere loro la responsabilità davanti a iscritti ed elettori, è il tam tam che circola tra i renziani. Che osservano come aver messo nero su bianco nello statuto che il segretario è titolare del simbolo e «ne autorizza l'utilizzo» tolga un'altra arma a chi è tentato dalla scissione. Ma dalla minoranza leggono quella siglata oggi in assemblea solo come una «tregua armata», funzionale alle partite che il premier deve giocare. «L'opzione del voto mi sembra voglia tenersela aperta - commenta un deputato 'pasdaran' - ma prima fare una legge elettorale pronta all'uso, magari il Mattarellum, e un presidente della Repubblica propenso allo scioglimento».

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