Aereo esploso/Russi nel mirino come 30 anni fa

di Andrea Margelletti
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Sabato 21 Novembre 2015, 02:12 - Ultimo aggiornamento: 6 Novembre, 00:23
Il terrorismo, per definizione, è un’azione subdola che mina in profondità le nostre certezze e che cerca di colpire laddove ci si sente più sicuri. Quando va in vacanza, chiunque di noi cerca un momento di distacco dalla realtà quotidiana, un attimo di riposo e di relax. Colpire questi momenti rappresenta un apice dell’azione terroristica, che fin dai tempi delle uccisioni di Luxor ha trovato in Egitto un luogo ideale per la propria azione. E poi c’è l’aereo, il velivolo per antonomasia dei vigliacchi attacchi del terrore. In aereo ci sentiamo inermi, siamo nelle mani del pilota e di un mezzo che sfrutta le leggi della fisica per portarci in aria, in uno degli elementi naturali meno “umani”.

Tornare a parlare della possibilità di un attentato terroristico contro un aereo pieno di turisti colpisce nel profondo le nostre sicurezze, ci fa sentire sempre più indifesi contro le minacce del Califfo Baghdadi e rende il nostro mondo sempre più piccolo. Anche un posto così “turistico” come Sharm el-Sheikh ci sembra ora inaccessibile, perso in un deserto non fatto più di divertimento e resort, ma di minacce, bombe e video di rivendicazioni.



Ed è qui la vittoria più grande del terrorismo: portare nel nostro quotidiano il dubbio, l’insicurezza di quello che ci può accadere quando siamo più indifesi. Non siamo ancora di fronte alla certezza di cosa ha fatto precipitare l’aereo del volo 7K9268, ma già possiamo vedere gli effetti di questo terrore. Migliaia di turisti bloccati in aeroporto perché nessuno vuole più volare sulla Penisola del Sinai né ci si fida più della sicurezza dello scalo egiziano.



In questo modo continuiamo ad isolare chi, poi, diventa doppiamente vittima del terrorismo, ossia quegli egiziani che nel turismo trovano il proprio sostentamento e una risorsa necessaria in un Paese difficile come quello delle Piramidi. Ci isoliamo e isoliamo gli altri in nome di una sicurezza che non può essere unicamente ricercata con maggiori controlli o con costosi protocolli di sicurezza. Il terrorismo, infatti, e la storia ce lo insegna, trova sempre nuovi strumenti per rendere inutili queste misure. Fin quando non capiremo che il terrore non è solo un fenomeno di sicurezza, ma sociale ed economico, non riusciremo ad estirpare le radici del male che ha trovato nell’11 Settembre la sua espressione drammaticamente più alta.



Il Sinai rimane il ventre molle di un Paese, l’Egitto, che sta cercando faticosamente la sua strada nel post-Mubarak. Questi territori sono diventati il connettore del malcontento tribale beduino e il santuario di quella radicalizzazione jihadista che nel Paese ha da sempre trovato terreno fertile. Se prima ci si rifaceva ad al-Qaeda ora si usa lo Stato Islamico per tradurre il proprio malcontento in logica terroristica, cercando un’appartenenza a un network internazionale in grado di esplicitare il proprio odio.



Qualora una bomba avesse interrotto bruscamente il ritorno a casa di più di 200 turisti russi saremmo davanti ad un’ulteriore evoluzione della minaccia di Isis. Nonostante ci possano essere dei dubbi su un’azione congegnata da un gruppo jihadista locale in accordo con la leadership centrale, lo Stato Islamico prenderebbe definitivamente in mano lo scettro del jihadismo internazionale. In più, l’obiettivo russo potrebbe far tornare alla mente gli strali minacciosi dell’inizio degli Anni 80, quando il nemico del jihad globale non era ancora Washington ma quella Mosca che con la sua Armata Rossa invadeva l’Afghanistan. Con degli effetti che inevitabilmente si riverbererebbero anche in Siria.



A dimostrazione del fatto che per quanto ci possiamo isolare, la nostra sicurezza è anche frutto delle nostre scelte in politica estera e di difesa.