Sandra Petrignani: «Guardo alla vita attraverso i cani che ho amato»

Sandra Petrignani: «Guardo alla vita attraverso i cani che ho amato»
di Riccardo De Palo
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Giovedì 16 Maggio 2024, 07:00

Un libro in cui «tutto è vero e tutto è falso», Autobiografia dei miei cani, di Sandra Petrignani, inaugura la nuova casa editrice Gramma/Feltrinelli. E poiché «come nei sogni è difficile venirne a capo», meglio desistere dal desiderio di «dare un nome ai personaggi». Dopo la tappa al Salone di Torino, il libro sarà presentato a Roma alla Mondadori di via Piave, con Vittorio Castelnuovo e l’autrice, il 29 maggio alle 18. Piacentina, classe 1952, madre napoletana, padre romano di discendenza umbra, Sandra Petrignani è autrice di tanti libri, dal Catalogo dei giocattoli a Navigazioni di Circe, è anche giornalista e per tanti anni ha lavorato proprio al Messaggero. Oggi vive tra la campagna umbra e Roma.


Come le è venuta l’idea? Ha pensato a “Flush, biografia di un cane”, di Virginia Woolf?
«A dire il vero no, però quel libro l’ho letto e riletto, lei è una delle mie scrittrici del cuore. Probabilmente qualcosa, inconsciamente, c’è. Anche Padrone e cane, di Thomas Mann: l’ho letto da giovane, è tra i miei preferiti».


Perché scrivere della propria vita attraverso la mediazione dei propri cani? Necessità di mantenere le distanze?
«Forse sì, non ci ho mai pensato. Ma soprattutto perché sono il vero filo conduttore della mia vita. Ho sempre avuto dei cani. Ho amato anche altri animali, ma con i cani avevo questa identificazione. Li vedevo come delle creature sfavorite. Oggi sono molto vezzeggiati, ma un tempo servivano per andare a caccia, li tenevano alla catena, mangiavano gli avanzi»

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Perché i cani e non i gatti?
«Forse perché i gatti sono più indipendenti, li puoi manipolare molto poco. Ne ho quattro al momento. Ne ho avuti parecchi, continuo ad averli, ma fanno la loro vita: vengono quando vogliono».


Altri hanno scritto la propria biografia immaginaria attraverso le case in cui hanno vissuto, come Andrea Bajani.
«Adesso è diventato di moda, però La scrittrice abita qui era un viaggio nelle case, nelle vite delle scrittrici. Avevo cominciato a scriverlo a 30 anni, poi l'ho pubblicato dopo che avevo fatto tutti quei viaggi».


Quale cane ha amato di più? Lei scrive: “Rivedo il mio cane flemmatico, si chiamava Ruggero, annusare distrattamente l’odore di un gatto principesco”.
«Quello che nel libro chiamo Ruggero, in realtà si chiamava Ralf. Veniva da tutti, anche gli amici, chiamato Ralfone, perché era piuttosto alto, grosso, insomma era un setter inglese bianco e nero. Ai cani non ho mai cambiato nome, perché spesso erano trovatelli, e ne avevano già uno. Ma a lui stava meglio un nome come Ruggero. Era un cane flemmatico. Ma poi mio figlio ha preso una cagnolina, Scarlet (non gli ho cambiato nome) che gli ha fatto cambiare carattere. È diventato un cane vivacissimo, voleva farsi bello con lei».


In percentuale quanto c’è di reale e quanto è frutto di fantasia, nel suo libro?
«Direi cento per cento di tutto».

Di realtà e anche di finzione?
«Tutto è vero, ma tutto deve essere trasformato.

Quando sei costretto a sintetizzare, il racconto si falsa inevitabilmente. E se vuoi lasciargli la forza della verità, devi in qualche modo cambiare le carte in tavola. Tutto è vero e tutto è anche un po’ falsato, esagerato, per raggiungere un effetto più vicino alla realtà. Come i nomi dei cani: non importa se Mago non si chiamava così in realtà, aveva il muso da mago».


Chi era nella realtà lo scrittore che cita nel suo libro, che amava Thomas Bernhard?
«Se non lo dico, non lo voglio dire. Se gli dessi un nome e un cognome, dovrei essere più attenta alla realtà, non potrei giocare con un personaggio. Ho cambiato nome anche al mio ultimo marito, Paolo, che nel libro viene chiamato Claudio. Io stessa nel libro divento Elettra, proprio per sottolineare che c'è sempre questa distanza dalla realtà».


Nel suo libro Roma è protagonista, anche se adesso vive spesso ad Amelia.
«Vivo in campagna, tra Giove e Amelia. C'è un grande giardino, i cani qua entrano e escono, sennò divento pazza. Però vengo anche a Roma, almeno tre giorni a settimana: lì c'è mio figlio, la nipotina». 


Tra i diversi quartieri di Roma in cui ha abitato, a quale è rimasta più legata?
«Trastevere forse, ci si andava perché lì c'erano i cineclub, c'era la buona musica. C’è stato un tempo un cui era veramente downtown per Roma: dove incontravi scrittori, poeti, cantautori come Bob Dylan che si esibivano lì quando non erano ancora famosi. Poi ci sono andata ad abitare e piano piano è cambiato, adesso è diventato un quartiere insopportabile, ci sono solo turisti e ristoranti».


Qual è stato il maggiore punto di svolta della sua vita?
«Sicuramente la nascita di mio figlio Guido è stato un momento decisivo. Legato, tra l’altro, a una scelta letteraria: l'abbandono della poesia. Ero magrissima, e avevo escluso di riuscire ad avere un figlio. Invece, diventare madre, è stata veramente una svolta. La poesia è una cosa totalizzante, c’è il rischio della follia. Pensi a quanti poeti si sono tolti la vita, come Sylvia Platt. Ho scelto la normalità: la prosa». 


C’è un momento molto toccante, del suo libro: lo scrittore romano di cui non vuole dire il nome ha un incidente e la protagonista si tuffa e comincia a nuotare come una forsennata. È vero?
«No, questa è letteratura, dettata dalla la necessità di usare un'immagine forte, coerente con il fatto che Elettra è una nuotatrice».

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