Pochi giorni fa, è capitato che un giornalista appassionato di storia e con breve passato accademico sia stato invitato all’università La Sapienza per parlare del caso Dreyfuss, che fu a cavallo tra Otto e Novecento. Ed è stato avvertito dalla docente del corso: «La prego di non esagerare sul tema dell’antisemitismo di cui fu vittima il capitano francese. Perché in quest’aula ci sono alcuni dei capetti del movimento pro-Gaza che già mi hanno contestato. E ci sono non pochi miei colleghi che, per pavidità o per demagogia, danno ragione a questi ragazzi».
Un tempo, ma adesso di nuovo, si sarebbero chiamati cattivi maestri quei professori che, invece di far ragionare, si accodano e che diventano follower dei propri alunni.
Ecco, le università europee sono trascinate in questo ‘68 male inteso. Mentre negli atenei americani si susseguono gli scontri e gli arresti, è in rivolta anti-Israele l’università di Berlino. L’ateneo di Valencia, in collegamento con quelli di Madrid e di Barcellona, e anche in Italia gli studenti - una minoranza super-combat - si preparano insieme ai ragazzi palestinesi al 15 maggio: la giornata della Nakba, l’esodo palestinese del 1948. Nelle vie intorno alla sede diplomatica israeliana ai Parioli, i militanti del movimento studentesco Cambiare Rotta hanno affisso finti cartelli turistici su cui c’è scritto: «Ambasciata del genocidio». E ancora: a Roma Tre si è svolta ieri sera una «fiaccolata anti-sionista» per ricordare la morte del rettore dell’università islamica di Gaza, Sufian Tayeh. Il quale, oggi, verrà ricordato a La Sapienza. Il Politecnico di Torino e quello di Milano in queste ore , cominceranno le mobilitazioni «anti-genocidio». E così un po’ ovunque: da Pisa a Padova, da Nord a Sud.
L’estetica del ‘68 fa premio su tutto: la rivoluzione, anti-occidentale, ma Mao e «la Cina è vicina» sono sostituiti dal grido «uno solo Stato dal fiume Giordano al mar Mediterraneo» (ovvero la cancellazione di Israele) travalica i continenti e non trova dighe e barriere nel corpo docente. Quelle che invece, a riprova che è sbagliato il parallelismo tra ‘68 e oggi, seppero formarsi a suo tempo. In cui uno dei grandi pensatori della sinistra, perfino filosoficamente superiore a Norberto Bobbio che pure non accettò supinamente la demagogia della rivolta in cui erano coinvolti i suoi figli e la generazione dei figli di tanti suoi amici e colleghi, e stiamo parlando di Eugenio Garin il grande studioso dell’umanesimo, non poteva non ammettere questo: «La sinistra ha ceduto alla demagogia giovanilistica, alla superficialità rumorosa, alle esasperazioni verbali. Non ci siamo ben resi conto delle profonde differenze politiche tra i gruppi di studenti: tra quelli che si sono ribellati contro guerre inique e i giovanotti che non avevano voglia di studiare».
LA RESISTENZA
Eppure, allora, una resistenza della ragione si tentò. Esisteva ancora, pur soffrendo, il principio di autorità, ma sarebbe meglio chiamarlo il rispetto per il valore della trasmissione del sapere, ed era in piedi il concetto di maestro - non di cattivo maestro - per cui si riconosceva a qualcuno il ruolo di guida. Ora, i guidati sono quelli che dovrebbero guidare. Il populismo giovanilista dei docenti universitari, non tutti ovviamente ma come al solito le minoranze sono quelle più rumorose e gli altri si accomodano nel tran tran e non prendono di petto la pretesa dei movimenti per la rottura delle collaborazioni accademiche con i paesi islamisti (in Italia sono in vigore 186 accordi di studio con le teocrazie), sta diventando il festival della nostalgia, il tentativo di rivivere fuori tempo massimo gli «anni indimenticabili» da baby boomers in rivolta sessantottesca: la stessa che ha consentito a molti di loro di entrare successivamente nel corpo dei docenti universitari ma più per ope legis che per merito sul campo degli studi. Fa parte della nuova arrendevolezza anche la rinuncia della Statale di Milano - «Abbiamo troppe minacce», dicono le autorità accademiche - a ospitare il 7 maggio un convegno sulla strage del 7 ottobre contro Israele. e viene da pensare alloo psicoanalista Massimo Recalcati. Il quale si va chiedendo da tempo: che cosa resta del padre? Del padre nel senso di maestro, pronto a spiegare i doveri (quello della complessità nelle materie politiche dovrebbe essere uno di questi) sembra restare molto poco, vedendo il tradimento dei chierici, cioè dei presunti padri spirituali, nelle nostre università laiche che rischiano di esserlo sempre di meno.