L'EQUIPE
In uno studio presentato all'ultimo Congresso dell'American College of Cardiology ed appena pubblicato sul New England Journal of Medicine, T. Yndigegn ed i partecipanti al trial REDUCE-AMI, coordinato dal Karolinska Institute di Stoccolma, mette in discussione proprio il beneficio dei beta bloccanti nel prevenire un secondo attacco di cuore o nel ridurre la mortalità nei pazienti in cui l'infarto miocardico è stato curato in tempi brevi e quindi il danno cardiaco non è stato importante.
Malattie cardiovascolari: indicatori centrali, ma da ottimizzare
I CASI
Sono stati studiati oltre 5000 pazienti arruolati tra il primo ed il settimo giorno dopo un infarto miocardico acuto e che avevano una coronarografia positiva per stenosi coronarica, ma in cui la contrattilità del muscolo cardiaco (valutata ecocardiograficamente) era normale o comunque ridotta in maniera non grave.
In metà circa dei pazienti è stata fatta una terapia comprendente (come da linee guida dell'infarto) l'utilizzo di beta bloccanti.
In compenso non vi era alcuna differenza neppure per le reazioni avverse talora provocate dai beta bloccanti, quali ad esempio la bradicardia, l'asma o altro. Questo studio, che viene dopo altri studi più piccoli ma che hanno ottenuto risultati simili, chiarisce in maniera evidente che nei pazienti con recente infarto miocardico che però non ha ridotto in modo grave la contrattilità del muscolo cardiaco, un trattamento di routine con alcuni farmaci quali i beta bloccanti non è assolutamente utile, anzi talora rischia di provocare spiacevoli effetti collaterali.
LA ROUTINE
Questo ci porta, una volta di più, alla necessità di calibrare la terapia sulle reali necessità del singolo paziente. No alla routine. Non è infatti pensabile che tutti i pazienti che hanno avuto un infarto siano trattati allo stesso modo quale che sia il danno provocato, gli stessi farmaci sono superflui e non vanno prescritti.
* Professore di Cardiologia Università Cattolica, Roma