Oltre il portellone lo sguardo si perde in una distesa di verde, eredità di un inverno che in Iraq è stato piovosissimo. Colline coltivate, spighe di grano già alte e cocomeri giganti, un lago azzurro che sembra un mare e le solite rocce impenetrabili che ricordano tanto i nascondigli dei terroristi. Scenario semi-vacanziero osservato a quindicimila piedi d’altezza. Il peggio qui più che altrove è difficile da scorgere. E i due piloti dell’elicottero lo mettono in conto ancor prima del decollo. A un certo punto si scambiano informazioni che in cuffia sembrano incomprensibili. E in un secondo decidono: si spara. Partono due razzi rossi e a bordo scatta la paura. Timori che non sono fantasie, in giornate che scorrono tra droni kamikaze e attacchi agli impianti del gas, di bombardamenti anti-milizie e missili rimasti senza rivendicazione. La cronaca di mesi di tensioni e morti si rivede tutta in un istante, appena l’Nh90 dell’Esercito italiano lancia il suo messaggio preventivo a un nemico sconosciuto. Ma il comandante tranquillizza subito: «Non abbiamo ricevuto minacce, stiamo attraversando una zona in cui esistono potenziali rischi e questi due “flare” vengono utilizzati a scopo preventivo. Ovviamente sono del tutto innocui. Ma utili, visto che non conosciamo esattamente cosa accade in questo territorio. Per evitare pericoli avvertiamo della nostra presenza». Si passa indenni, anche sotto quell’agglomerato di casette semidiroccate, dove alcune auto si aggirano senza una meta precisa. L’attenzione non si abbassa e la mitragliatrice di bordo resta pronta a entrare in azione.
LA ROCCAFORTE
Dietro la collina c’è Mosul, la città bella che Daesh elesse capitale per mostrare al mondo l’esistenza di una nazione con quella costituzione convintamente terroristica.
LA NUOVA BATTAGLIA
La sfida anti-Daesh, essenziale per evitare l’allargamento del conflitto mediorientale, in questa fetta semindipendente di Iraq è nelle mani dei Peshmerga, le forze armate del Kurdistan, che da Baghdad ha ottenuto autonomia decisionale e organizzativa su sicurezza e altri settori strategici. Il ministro dell’Interno della regione autonoma, Rebar Ahmed Khalid, non nasconde né il rischio né le preoccupazioni: «Le truppe dello Stato islamico in questo momento sono meno forti, ma quella che è ben radicata è l’ideologia. Non sappiamo sotto quale nome si ripresenteranno ma siamo certi che succederà. Gli episodi delle ultime settimane ce lo confermano. Confidiamo sul lavoro dei nostri peshmerga». L’esercito curdo però è un’armata poco moderna, quasi per nulla tecnologica, priva persino di mezzi corazzati. Soldati pagati bene ma non troppo, che però non hanno elicotteri e meno che meno aerei da combattimento. L’intelligence si regge sull’aiuto degli americani che insieme ad altri 12 Stati portano avanti da 10 anni la missione Inherent Resolve. L’Italia c’è, anzi è in prima linea. È il secondo Stato contributore e con l’operazione “Prima parthica” cerca di trasformare le reclute curde in soldati professionisti. Capaci, chissà tra quanto tempo, di fronteggiare in autonomia l’escalation che è dietro l’angolo. «C’è una zona del territorio iracheno che è ancora zona franca, senza alcun controllo, né da parte dell’esercito curdo né dalle forze irachene e proprio in quest’area i gruppi terroristici agiscono in libertà - spiega Shoresh Ismail Abdulla che in Kurdistan è il ministro della Difesa - Stiamo progettando una task force che ripristini il controllo anche in quell’area, al confine tra il Kurdistan e il resto dell’Iraq e molto vicino alla Siria. In pochi mesi dobbiamo cacciarli».
LA GUERRA PARALLELA
L’orrore del 7 ottobre e l’assalto israeliano alla Striscia di Gaza hanno fatto dell’Iraq un ring apparentemente secondario, terra di confine tra Stati nemici e lievito di interessi politici, religiosi ed economici contrapposti e inconciliabili. La convivenza interna sembra pacifica, ma la divisione dei partiti-confessione non è stabile. Baghdad va a braccetto con Teheran ma gli affari con gli americani non vuole smettere di farli. Dall’altra parte c’è la Siria e a complicare le cose ci sono le relazioni che il Kurdistan non ammette di avere con Israele. «Se fosse così - dice il generale dei peshmerga Mahamed Saeed - mi chiedo perché Tel Aviv non ci abbia difeso quando l’Iran ha colpito un edificio vicino a Erbil dicendo che si trattava di una base del Mossad. La verità è che Teheran ha attaccato a caso e ha distrutto l’abitazione di alcune famiglie e ucciso un uomo d’affari che con gli 007 israeliani non aveva alcun rapporto». Tutti, alleati, rivali e confinanti, hanno l’Isis come nemico comune ma nel conto dell’attualità infuocata, vanno sommati i raid senza mittente contro una base militare irachena, i missili lanciati su un impianto energetico e anche i bombardamenti americani che da queste parti hanno colpito comandanti e milizie affiliate agli ayatollah. I segnali si ritrovano ogni giorno, nelle chiacchiere tra venditori e clienti del suk di Erbil e tra le pagine delle cronache locali. La sintesi è semplice: la cattura di esponenti di spicco del vecchio organigramma di Daesh, il sequestro degli arsenali e il rimpatrio delle famiglie legate allo Stato islamico e che da anni vivono nei campi allestiti in Siria. Per loro c’è una sola opportunità: rientrare nei villaggi da cui sono fuggiti e dove ora sono rimaste solo le macerie della devastazione jihadista.
L’INCOGNITA USA
A Baghdad nel frattempo hanno fatto partire il countdown per dare il benservito agli Stati Uniti e alla coalizione di 84 stati che dal 2014 ha aiutato l’Iraq a fermare l’avanzata jihadista. La discussione politica è rovente, ma lo scenario più concreto non è la smobilitazione. Semmai quello di accordi bilaterali che consentiranno ai contingenti dei vari stati di rimare sulla base di nuove regole. Russia e Cina osservano con interesse, pronte a occupare gli spazi che rischiano di essere lasciati liberi. E l’ambasciatrice americana Alina Romanowski lo spiega senza troppi giri di parole: «Sappiamo che altri Paesi stanno bussando alla porta pubblicizzando alternative a ciò che offrono gli Stati Uniti e i nostri partner. Ma nessuno di loro può dare al popolo iracheno tanto quanto noi già facciamo ogni giorno. Non solo sul fronte della sicurezza».