Rai, Cassese: «Serve la competenza per garantire la libertà. Viale Mazzini ritrovi lo spirito dei primi anni»

Il giurista: ormai si parla per slogan

Rai, Cassese: «Serve la competenza per garantire la libertà. Viale Mazzini ritrovi lo spirito dei primi anni»
di Mario Ajello
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Martedì 7 Maggio 2024, 00:00

«Quando tutti pensano nello stesso modo, nessuno pensa molto». Lo diceva Walter Lippmann. Professor Sabino Cassese, oggi secondo lei è in corso in Italia un tentativo di omologare i pensieri nell’informazione?

«Quel libro di Walter Lippmann sull’opinione pubblica uscì negli Stati Uniti nel 1922. Sono passati 102 anni. Da allora nell'opinione pubblica sono accaduti due importanti e complessi rivolgimenti. Il primo: sono andati crescendo per importanza i partiti, grande strumento di formazione dell'opinione pubblica, oltre che di organizzazione del consenso e di selezione della classe dirigente e poi, da almeno trent'anni, i partiti si sono andati riducendo, essiccando. Una volta, nella storia repubblicana, era iscritto ai partiti l'8% della popolazione, ora gli iscritti non superano il 2%. Secondo stime interne, il partito con il maggior numero di iscritti oggi ha ne ha 200 mila soltanto (per avere un termine di raffronto, gli aventi diritto al voto sono 46 milioni). Il secondo rivolgimento è cominciato circa trent'anni fa ed è la sostituzione o l’affiancamento dei media (giornali radio e televisione) con il web. Si tratta di strumenti di comunicazione completamente diversi. Il web è uno strumento di comunicazione “many to many”, da molti a molti, senza un filtro. I media tradizionali sono uno strumento di comunicazione “one to many”, da uno a molti, presidiati da soggetti che si chiamano giornalisti, che sono grandi valutatori, selezionatori, classificatori, interpreti della realtà. Non credo che oggi vi sia un tentativo di omologazione, ma c'è una inconsapevolezza, da parte dei media, del ruolo fondamentale che essi debbono svolgere su due fronti: da un lato, su quello dell'assenza dei partiti, per riempire un vuoto; dall'altro, quello della rete, per assicurare un filtro».

Il vuoto che si è creato per l’assenza dei partiti lo hanno appunto riempito i media?

«Questo è il punto critico.

Walter Lippmann diceva che i giornali servono ad aiutarci a giudicare il mondo. Lo fanno in alcuni Paesi. Apra un giornale italiano, ascolti la radio, accenda la televisione e noti quali sono le notizie in primo piano, o che occupano più spazio e come vengono commentate, se sono colti i grandi movimenti sotterranei del nostro Paese. Se dovessimo immaginare un colloquio tra Usbek e Rica, i due personaggi di fantasia di uno dei più importanti libri della storia della cultura, le “Lettere persiane” di Montesquieu (1721), dovremmo immaginare che Rica, dall'Italia, scriva a Usbek che la penisola è dominata da omicidi ed assassini, specialmente di donne, nonché da incidenti gravi, per il rilievo che ad essi danno i media; che un sistema di istruzione, una scuola, non esiste, per il silenzio osservato su questo tema; che i gravi problemi della sanità dipendono soltanto dall'assenza dei medici. Un mondo di epifenomeni, non di fenomeni; l’evento minimo, invece di quello importante; la superficie dei fatti non la sostanza».

I media svolgono male il loro ruolo, insomma?

«Dominano gli stereotipi. Quello preferito è lo stereotipo della “bufera”. Un altro molto gradito è quello del duello. Si comunicano motti, frasi, slogan. Non si chiariscono motivi. Dunque, un'opinione pubblica asfittica. Strumenti che non riescono a scegliere i fatti pertinenti, come insegnava Lippmann, né a spiegare e ragionare, prima di parteggiare. A tutto questo si è adeguata la classe politica che, nell'assenza di attenzione dei media per i programmi, le prospettazioni del futuro, gli indirizzi, si riduce anch'essa a slogan quotidiani, spesso smentiti il giorno dopo, con la conseguenza che l'opinione pubblica è frastornata e il rapporto tra Stato e società è in crisi, come si nota osservando il declino dei votanti, perchè l’opinione pubblica è essenziale per la democrazia».

Ci sono tre cose che riguardano tutti ma proprio tutti gli italiani: sanità, scuola e informazione. Quest’ultima funziona peggio delle altre?

«Questi sarebbero gli argomenti di cui dare quotidianamente informazione, discutere, raccogliendo dati, fornendo statistiche, commentando, stabilendo priorità. In questo modo, i media dovrebbero esercitare il loro grande ruolo di educatori e selettori in un mondo nel quale i partiti non sono più formatori di opinione pubblica e opera il web, che però non ha filtri. Quanto al funzionamento comparato dei tre settori, sanità, scuola e informazione presentano insieme tutti e due gli elementi che sono caratteristici di un paese prismatico come l'Italia: pochi punti di eccellenza veramente ammirevoli, che si accompagnano a malfunzionamento diffuso, oscurità, malessere».

La Rai non dovrebbe essere il punto giusto per guardare il mondo?

«Per la Rai si può ripetere quello che ho appena detto: anche lì ci sono eccezioni, ma non riescono a diventare “best practices”, cioè modelli da seguire. Questo è tanto più grave per la Rai in quanto è un patrimonio collettivo che dovrebbe avere orecchie aperte sul mondo, occhi sbarrati sulla realtà, voce capace di discutere e selezionare, evitando di perdersi nella ricerca di farfalle sotto l'arco di Tito, per ripetere una famosa espressione delle Odi barbare di Carducci».

Trova che sia calato il livello del servizio pubblico? E se sì, perché? Colpa della politica invadente?

«Non la seguo nel soffermarmi sui cambiamenti quotidiani. Bisogna considerare gli andamenti di lungo periodo, dove cambia l'intensità, ma la direzione purtroppo è quella: eccessiva attenzione per la notizia dell'ultima ora, scarsa riflessione su quello che è successo ieri o l'altro ieri, ricerca del duello per attirare l'attenzione del pubblico, poco studio delle grandi correnti e trasformazioni della società, visione partigiana».

Quali sono state le stagioni migliori del servizio pubblico secondo lei?

«Penso che siano stati gli anni fondativi, ma che quel patrimonio iniziale si è rapidamente disperso e penso che quello non sarebbe bastato in presenza dei rivolgimenti che si sono prodotti negli ultimi trent'anni, dai quali siamo partiti in questa conversazione».

Non crede che, nella proliferazione dei media, la tivvu dovrebbe ritagliarsi un altro tipo di racconto?

«Se i sondaggi mostrano che per gli italiani il numero di stranieri residenti nella penisola è il triplo di quello reale, non vuol dire questo che c'è un fallimento degli strumenti di informazione dell'opinione pubblica, che non riescono a trasmettere un dato semplice, che basta acquisire andando sul sito dell'Istituto nazionale di statistica?».

L’informazione in Italia ha bisogno di più libertà o di più competenza?

«Competenza, competenza, competenza e tanto lavoro, perché così può essere assicurata la libertà».

La guerra per il potere nell’informazione in Italia c’è sempre stata. È una guerra sbagliata? Una guerra giusta? Una guerra naturale?

«È una guerra giusta e naturale, ma non ci si rende conto che è cambiato il teatro di guerra, perché i media sono rimasti gli unici formatori dell'opinione pubblica per l'assenza dei partiti, e sono insidiati dal web».

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