Ergastolo ad Alessia Pifferi, il commento.
Non vorremmo essere nei panni dei giudici, togati e popolari, che hanno scavato in fondo all’orrore, alla ricerca della pena più adeguata a rispondergli, pur sapendo che qualunque pena sarebbe parsa a posteriori insufficiente.
Tanto se avesse confermato, con la sua severità, la coincidenza tra la gravità del danno prodotto, cioè l’omicidio di una neonata, e la piena responsabilità della madre, come è accaduto. Quanto se avesse accolto la tesi di un’incapacità dell’autrice di imputarsi pienamente le conseguenze della sua scellerata condotta. La morte di un bambino – racconta Albert Camus ne «La peste» – è il simbolo dell’assurdo. Di più lo è una vicenda che, nella ricostruzione del processo, ha squadernato ai nostri occhi, sì a lungo, l’agonia di una vita innocente che si spegne senza che nessuno intervenga a fermare un simile scandalo.
Ma ancora più drammatico pare il compito di quegli uomini di diritto e di buona fede se si considera il clima unico in cui sono stati chiamati a giudicare, con una pubblica accusa che ha messo sotto indagine l’avvocato e le perite di parte, di fatto ribaltando con una prova di forza quella parità d’armi che è condizione di un processo giusto. Fare appello alla terzietà e alla serenità necessarie per un verdetto indipendente deve essere stata per quei magistrati un’impresa emotiva e morale senza precedenti. Possiamo solo sperare che, in un agone giudiziario così esacerbato, siano riusciti a graduare il loro verdetto nella maniera più corrispondente alla realtà oggettiva della tragedia e alla colpevolezza soggettiva della madre.
Dentro un male così grande e, per certi versi, così insondabile, nessuna sentenza ha una giusta misura.