Permesso di soggiorno revocato per spaccio, ma ha tre figlie a Viterbo: il Tar lo riconsegna

Permesso di soggiorno revocato per spaccio, ma ha tre figlie a Viterbo: il Tar lo riconsegna
di Federica Lupino
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Martedì 3 Maggio 2022, 06:20 - Ultimo aggiornamento: 21:31

La detenzione di stupefacenti a fini di spaccio non è un reato sufficiente per giustificare la revoca del permesso di soggiorno. Soprattutto se il condannato tiene famiglia. È quanto stabilito dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio che, con sentenza pubblicata il 20 aprile scorso ha accolto il ricorso di uno straniero al quale la Questura di Viterbo aveva revocato il permesso di soggiorno (per lavoro subordinato) nel dicembre 2016.

La decisione era stata adottata “in ragione della sussistenza di una condanna per reato in materia di sostanze stupefacenti . Inoltre, la Questura aveva ritenuto che “né il documentato inserimento lavorativo né l’esistenza di legami familiari in Italia abbiano rappresentato affatto un deterrente per la commissione di un reato particolarmente grave”.

Contro il provvedimento di revoca, il ricorrente ha addotto motivi quali la violazione di legge e l’eccesso di potere sotto plurimi profili. E il Tar gli ha dato ragione. In particolare, i giudici hanno ricordato che “il permesso di soggiorno va revocato agli stranieri ritenuti pericolosi per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato” ma che “in caso di condanna per reati ritenuti ostativi è illegittimo il diniego di rinnovo automatico del titolo di soggiorno, qualora la pubblica amministrazione non abbia ponderato la gravità del reato con il contrapposto interesse dello straniero a rimanere in Italia in ragione dei vincoli familiari”.

E questo è il caso in oggetto: lo straniero è padre di tre figlie minori; è entrato in Italia nel 2007 per ricongiungersi alla moglie; ora vive con una nuova compagna titolare di permesso di soggiorno e lavora con regolarità.

Inoltre, “la vicenda penale si riferisce a un unico episodio” e non risultano ulteriori pendenze giudiziarie a suo carico.

Nel motivare la sentenza, il Tar accusa la Questura di essersi “trincerata dietro formule vuote e frasi stereotipate che in alcun modo consentono di percepire l’iter logico e motivazionale sulla scorta del quale i plurimi elementi attinenti alla sfera professionale e familiare del ricorrente debbano essere ritenuti sub valenti rispetto a una condanna ricevuta in relazione a un unico reato, seppur grave”.

Da qui la revoca del permesso di soggiorno annullata e ministero dell’Interno condannato a pagare le spese al ricorrente per 1.500 euro.

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