Crollano i permessi di soggiorno nella Tuscia, numero dimezzato in 12 mesi

Crollano i permessi di soggiorno nella Tuscia, numero dimezzato in 12 mesi
di Luca Telli
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Giovedì 28 Ottobre 2021, 10:43 - Ultimo aggiornamento: 13:21

Calano gli ingressi di cittadini non comunitari nel viterbese, nel 2020 sono stati 427 i permessi di soggiorno concessi, erano stati 952 solo 12 mesi prima. È quanto emerge dall’ultimo rapporto ISTAT sulle presenze extra Unione Europea nelle 107 province italiane pubblicato nei giorni scorsi.

Numeri in linea con il trend nazionale e prevedibili nella paralisi provocata dalle prime due ondate della pandemia. Nel Lazio solo Latina è in controtendenza con un aumento significativo dei visti concessi.
Nella Tuscia, nel dettaglio, sono stati 151 i permessi concessi per un periodo di 6 mesi: 46 per lavoro, 21 per ricongiungimento famigliare e 85 per motivi differenti (religione, residenza elettiva, salute, motivi di giustizia, integrazione minori, apolide riconosciuto, attività sportiva, etc.); 106 invece quelli fino a 12 mesi (24,30,52); 169 oltre 12 mesi (0, 166,3).

Sono 13.433 è il numero totale delle presenze al primo gennaio 2021; 7730 sono i soggiornanti di lungo periodo, 1218 hanno ottenuto un permesso di soggiorno per lavoro, 2754 famiglia, 59 studio, mentre 1360 sono stati i richiedenti asilo, 1672 altro.

Il calo della presenza di cittadini extra comunitari ha avuto contraccolpi sul mondo del lavoro e, in particolare, nel primario: settore a scarsa specializzazione che rappresenta il principale bacino di raccolto della manodopera straniera. A spiegarlo è la segretaria della Fai–Cisl (Federazione agricola alimentare ambientale industriale italiana) Sara De Luca: «Il blocco imposto dall’emergenza sanitaria ha avuto un impatto significativo per le imprese del territorio.

La mancanza di manodopera è stato un problema reale. Il contributo che l’immigrazione in generale, e quella extra europea in particolare, porta all’agroalimentare è fondamentale per consentirne il corretto funzionamento».

Manodopera, spesso a basso costo, che risulta più esposta al lavoro nero: «Nel corso degli anni abbiamo assistito a una crescita del fenomeno – continua De Luca -. Più a rischio sono soprattutto i lavoratori impiegati nelle piccole aziende. Stiamo portando avanti un lavoro di tutela del settore grazie al sostegno delle forze dell’ordine».

Finora bassi i risultati ottenuti, le denunce sono infatti tutt’altro che scontate: «Di 100 telefonate che arrivano poche sono quelle che si concretizzano frenate dalla paura e dal ricatto occupazionale». La penuria di manodopera, e un certo grado di difficoltà per le imprese, potrebbe non avere breve durata. L’inverno in arrivo e una ripresa della corsa della curva del contagio in alcuni paesi chiave potrebbe portare infatti a un rallentamento che neppure il ritorno in campagna della componente italiana ha arginato.

«Nello sconvolgimento creato dalla pandemia c’è chi è stato costretto necessariamente a reinventarsi – conclude De Luca - La gettata della compente italiana però non è stata sufficiente per permettere il pareggio numerico lasciando le aziende in sofferenza».

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