Mafia viterbese, parla il pentito: «Bruciare la macchina di un carabiniere era una cosa grossa»

Un attentato della mafia viterbese - Nel riquadro Sokol Dervishi
di Maria Letizia Riganelli
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Domenica 18 Ottobre 2020, 06:40 - Ultimo aggiornamento: 19 Ottobre, 12:13

«Eravamo come soldati, eseguivamo gli ordini di Ismail Rebeshi e Giuseppe Trovato». In tre ore di testimonianza l’unico pentito del sodalizio mafioso viterbese ripercorre non solo la maggior parte degli attentati ma spiega la genesi della banda e gli obiettivi.

Sokol Dervishi dopo l’arresto di gennaio 2019 ha deciso di collaborare con la giustizia e di parlare. Per due volte è stato interrogato dal pm Fabrizio Tucci spiegando e raccontando i retroscena di quasi tutti gli oltre 40 attentati messi a segno in due anni e mezzo di attività.

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Venerdì mattina durante l’udienza per il processo a carico di Emanuele Erasmi, Manuele Pecci e Pavel Ionel unici a chiedere il rito ordinario e unici tre a non essere considerati parte della banda ha circostanziato ancora di più. Fornendo dettagli e parlando anche della droga, collante per tutta la banda.

«Io conoscevo Rebeshi perché era mio vicino di casa in Albania, quando sono arrivato a Viterbo abbiamo fatto affari con lo spaccio. Con Trovato - dice - si sono conosciuti nell’ambito della discoteca e hanno deciso di unire le forze. Rebeshi aveva subito un atto incendiario nel suo piazzale. E’ partito tutto da qui». Una regia unica.

«Trovato e Rebeshi uscivano a cena insieme e pianificavano cosa fare. All’inizio era solo far dispetto agli avversari, i compro oro per Trovato e gli altri gruppi di spacciatori o discoteche rivali per Rebeshi. Dovevamo terrorizzare tutti e lo facevamo con le auto bruciate, le teste di animali morti.

E se non funzionava anche sparare. Trovato aveva parenti di famiglie potenti di Calabria e diceva sempre che queste cose a Lamezia Terme erano normali, un gioco. Invece per Viterbo erano efficaci e che dovevamo stare tranquilli perché conosceva gente importante e avevamo le spalle coperte».

Spalle coperte perché il boss viterbese Trovato ha dei cugini lametini affiliati alla ‘ndrangheta. «Sono stato diverse volte dai parenti di Trovato in Calabria. Ci chiese, a tutto il gruppo, anche dei soldi per pagare gli avvocati dei cugini. E poi ne parlava sempre voleva portare il modo di agire della ‘ndrangheta a Viterbo». Rivali del gruppo anche le forze dell’ordine che si erano accaniti con loro, a Ismail avevano arrestato il fratello.

Motivo, secondo l’accusa, dell’incendio alla macchina del brigadiere dei carabinieri. «Ho partecipato io all’attentato. E ai sopralluoghi anche Pavel Ionel. Il romeno era il tuttofare di Rebeshi. All’inizio gli volevano far fare anche l’attentato ma Ismail non si fidava tanto perché si ubriacava ed era straniero. Bruciare la macchina di un carabiniere era una cosa grossa».

Niente lasciato al caso. Tutto studiato a tavolino. «Preparavano giorni prima - ha spiegato - e decidevano chi mandare. Noi eseguivamo e basta senza chiedere, come soldati. Solo io mi sono ribellato». Il gruppo secondo il collaboratore era talmente solido che anche durante la prima detenzione di Rebeshi (arrestato per spaccio dalla Dda di Cagliari) continuava a lavorare. «Ci ha mandato a recuperare somme per la droga anche in Calabria, dal carcere riusciva a far arrivare i messaggi»

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