Processo alla mafia viterbese: «È stato un caso da manuale»

Uno degli attentati al Poggino
di Maria Letizia Riganelli
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Domenica 14 Giugno 2020, 10:37 - Ultimo aggiornamento: 15 Giugno, 10:24
«Un 416 bis da manuale». Così aveva definito in udienza il pm antimafia Giovanni Musarò la banda messa in piedi da Giuseppe Trovato e Ismail Rebeshi. Un caso che potrebbe far scuola anche senza tirare fuori le tradizioni e le sintomatologie delle mafie storiche.

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Il primo a capirlo è stato, però, il pubblico ministero Fabrizio Tucci, che ai tempi delle prime indagini era ancora in servizio alla Procura di Viterbo. Il magistrato leggendo le informative dei carabinieri inviò subito tutto alla Dda di Roma. Qui le carte finirono tra le mani del collega Musarò e insieme iniziarono a coordinare il resto delle indagini.

AVVERTIMENTI
I capisaldi del 416 bis, inquadrato nelle piccole mafie e riconosciuto dal gup di Roma come associazione a delinquere di stampo mafioso, sono molti. Ma alcuni sono più lampanti degli altri. L'utilizzo delle teste di agnello mozzate, lasciate come minaccia sugli usci o sui parabrezza delle auto delle vittime, ricorda molto gli usi della ndrangheta. E Trovato questo lo sapeva molto bene. «Questo disse il boss a Rebeshi la prima volta che lasciarono la testa di agnello - è una cosa che si fa al Sud». Intendendo un avvertimento che arriva subito a destinazione perché chi riceve questo tipo di minaccia sa perfettamente che non è con un viterbese che ha a che fare, ma con un mafioso.

INTIMIDAZIONI
L'altro connotato tipico, sottolineato più e più volte dai magistrati durante la discussione, è l'aspetto legato al recupero credito e alla risoluzione delle controversie. Trovato in almeno due casi si sarebbe inserito, perché chiamato a risolvere, in controversie civilistiche. L'imprenditore edile di Bagnaia lo intercetta per riuscire a riscuotere un credito vecchio. E chiama il boss, non si affida alla giustizia. Stessa cosa succede per l'imprenditore del settore estetico che per difendersi da un cliente insoddisfatto che chiede soldi per un trattamento finito nel peggiore dei modi, invece di risolvere la faccenda con gli avvocati, mette in mezzo Trovato. E' lui che spinge la vittima a non procedere legalmente, a far finta di nulla. Prima con le parole, poi progetta anche altro, fortunatamente tutto sventato dai carabinieri.

SENTENZA
La sentenza del Tribunale di Roma, seppur di primo grado, è importante e fondamentale. Perché ha messo un punto preciso in una storia che poteva continuare a mietere vittime. Ma è fondamentale, come hanno sottolineato i magistrati, anche per il processo con rito ordinario che si sta svolgendo al Tribunale di Viterbo. I due imprenditori viterbesi e il tuttofare romeno di Rebeshi (nessuno considerato parte della banda, ma accusati di estorsione aggravata dal metodo mafioso) ora dovranno fare i conti con questa sentenza e con la consapevolezza che la mafia può attecchire anche in ambienti considerati immuni. La possibilità di smontare l'accusa mafiosa sarà sicuramente più difficile.

Intanto ieri Martina Guadagno, commessa di Trovato condannata a 2 e 4 mesi e non riconosciuta parte attiva del sodalizio, è uscita dal carcere di Santa Maria Capua Vetere per tornare a casa a Viterbo, dove continuerà la misura ai domiciliari.
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