Viterbo, bracciante costretto a trasportare il cognato morto "come una pecora". L'orrore del caporalato

Viterbo, bracciante costretto a trasportare il cognato morto "come una pecora". L'orrore del caporalato
di Maria Letizia Riganelli
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Mercoledì 16 Dicembre 2020, 06:25 - Ultimo aggiornamento: 14:13

Servi e padroni. I primi senza diritti e chiusi in magazzini fatiscenti sfruttati solo per il lavoro duro, i secondi pronti a dare ordini e fare profitto. I carabinieri del Nucleo investigativo, coordinati dalla Procura di Viterbo, hanno portato alla luce una storia di sfruttamento del lavoro che riporta al Medioevo. Quando padroni e servi non si mescolavano. 

Caporalato, violenza ed estorsione, in manette famiglia di allevatori di Ischia di Castro

Ieri mattina all’alba sono finiti ai domiciliari tutti i componenti della famiglia Monni di Ischia di Castro. Imprenditori agricoli di origine sarda da tempo residenti nell’Alta Tuscia. Padre, madre e i due figli di 49 e 38 anni sono indagati, a vario titolo, di occupazione di lavoratori stranieri clandestini, estorsione aggravata, violenza o minaccia per costringere a commettere un reato e sfruttamento aggravato della manodopera.  
L’indagine, coordinata dal sostituto procuratore Stefano D’Arma, inizia a giugno del 2019, quando i carabinieri vengono chiamati per la morte di Petrit Ndreca, cittadino albanese di anni 44, rinvenuto cadavere a Ponte san Pietro di Ischia di Castro, al confine con la Toscana.

Ad allertare il 118 ed i militari fu il cognato. L’uomo raccontò una strana storia, che lasciò i carabinieri con molti sospetti e poche certezze. 

«Le complesse indagini - ha spiegato il colonnello Andrea Antonazzo - nei mesi successivi hanno permesso di ricostruire l’intera vicenda, grazie anche al paziente lavoro di riascolto di tutte le persone informate sui fatti. Si è potuto dimostrare con certezza un diverso svolgimento dei fatti e ricondurlo al contesto dello sfruttamento della manodopera». Petrit era un bracciante agricolo senza permesso di soggiorno che da due mesi, per 800 euro, lavorava in nero per conto della famiglia sarda di Ischia di Castro. Il 44anne albanese, hanno ricostruito gli inquirenti, il pomeriggio del 7 giugno sarebbe morto a seguito di un improvviso malore mentre era nell’azienda.

I proprietari avrebbero costretto, dietro minacce, il cognato a caricare sulla sua macchina il corpo senza vita di Ndreca avvolto in una coperta. «Come quello di una pecora», dirà qualche giorno dopo agli investigatori. Il corpo viene allontanato dall’azienda per non attirare le forze dell’ordine. «La situazione - ha spiegato il procuratore capo Paolo Auriemma - non è passata sotto silenzio». Anzi, l’indagine ha scoperchiato il vaso.

Secondo quanto ricostruito i lavoratori erano costretti a svolgere mansioni pesantissime per una paga misera. Il compenso arriva a poco più di un euro all’ora e dormivano in magazzini fatiscenti. Nessuna pausa, nessun riposo. Per il duro lavoro da servi avrebbero ricevuto solo insulti. I lavoratori infatti venivano chiamati “cane” o “verme”, mentre ai datori di lavoro ci si riferiva con il termine “padroni”.

«Queste indagini - ha affermato il procuratore capo Auriemma - è importante perché dimostra quanto sia importante per noi la tutela del lavoro, che voglio sottolineare riguarda la tutela dell’intera comunità. Per questo la nostra attenzione su questo tema resterà alta e costante».

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