Estorsione con metodo mafioso, l'imprenditore viterbese: «Mi avevano terrorizzato»

Attentato incendiario di mafia viterbese
di Maria Letizia Riganelli
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Domenica 10 Ottobre 2021, 06:20 - Ultimo aggiornamento: 19:13

«Ero terrorizzato, me la sono fatta addosso». L’imprenditore 52enne vittima dei fratelli Rebeshi ripercorre in aula l’agguato contro di lui architettato da David Rebeshi e tre ventenni albanesi. L’imprenditore legato da amicizia con i due albanesi e da una collaborazione lavorativa nell’ambito della compravendita di auto venerdì mattina si è presentato in aula per raccontare la sua esperienza.

Fu proprio la sua denuncia, e quella del ristoratore 54enne, a far scattare le indagini e portare gli albanesi di nuovo in carcere con l’accusa di estorsione aggravata dal metodo mafioso. Un’accusa arrivata anche al boss di mafia viterbese, nonostante a novembre 2019 fosse già rinchiuso al 41 bis per l’operazione Erostrato. 

«Nei primi mesi della detenzione di Ismail abbiamo tenuto sotto controllo le sue comunicazioni - ha spiegato il comandante del Nucleo investigativo, colonnello Marcello Egidio - con l'invio di mail al fratello David in cui spiegava cosa doveva fare per far continuare i suoi affari. Principalmente i locali notturni e le società di auto. Ha contattato anche la storica fidanzata, per gli stessi motivi. Sempre dal carcere ci sono stati passaggi di quote nelle società come quella che da poco era stata costituita per la discoteca Perfidia».

Non solo, dalle celle del carcere di Mammagialla, dove il biondo è stato recluso a novembre 2018 per spaccio interazione di stupefacenti (operazione Icnos della dda d Cagliari) e dove due mesi dopo gli è stata notificata l’ordinanza per associazione a delinquere di stampo mafioso, avrebbe fatto anche diverse telefonate. «Si era procurato un telefono - ha spiegato ancora Egidio - e con quello comunicava con l’esterno».

Il famoso telefono imbucato in cella, come fatto notare dal difensore Roberto Afeltra, non sarebbe mai stato sequestrato. «Non ne avevamo motivo - ha sottolineato Egidio - lo stavamo intercettando».

Tra gli affari che Ismail doveva sistemare dal carcere ce ne erano due particolarmente importanti, perché legati agli amici. Le due vittime di questo processo sono entrambi legati a doppio filo con gli albanesi. Rebeshi stesso durante l’udienza li ha definiti di “famiglia” e «la famiglia - ha continuato Egidio - per Ismail e Trovato era molto importante. Tutti sapevano che se qualcuno si allontanava dal gruppo o si metteva di traverso avrebbe avuto conseguenze pesanti». Esattamente come successo ai due imprenditori un tempo amici degli imputati. Il primo, il ristoratore era diventato loro conoscente perché il gruppo si riuniva proprio nel suo locale e anche per trascorsi di droga. Il secondo invece aveva un legame ancora più forte.

«Era presente quando Rebeshi minacciò pesantemente gli imprenditori romeni che avevano affittato la discoteca Theatrò e c’era quando misero le teste mozzate. Sapeva quanto era pericoloso». Sapeva e ne ha avuto prova. «Quel giorno nel piazzale dell’autorivendita di Monterosi me la sono fatta sotto. C’erano 4 uomini che mi minacciavano, mi seguivano con l’auto. Volevano i soldi di Ismail. Io ho chiamato i carabinieri e sono scappato». La vittima è la stessa persona che con Ismail è finito nel processo per spaccio internazionale di stupefacenti di Cagliari «è lo stesso che si prese l’onere di custodire 65 kg di marjiuana nel suo piattodoccia».

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