I beni di Elio Marchetti passano alla Stato. Immobili, conti correnti, moto, autovetture e barca per un valore di 8 milioni di euro. E’ finito tutto nelle nelle mani pubbliche.
L’ultimo pesante tassello della saga dell’imprenditore viterbese appassionato di moto e velocità è stato scritto proprio ieri, quando fiamme gialle e Polstrada hanno eseguito la confisca di primo grado sui suoi beni e su tutti quelli a lui direttamente o indirettamente riconducibili. E’ la prima volta che a Viterbo viene eseguita una confisca di questa entità. Mirata a svuotare quanto raccolto e costruito in anni di lavoro ed evasione fiscale. E’ questa infatti la causa primaria della confisca e di tutti i guai giudiziari con cui ha fatto i conti, e li sta facendo ancora, Elio Marchetti.
Guai iniziati 15 anni fa quando fiamme gialle e Polstrada hanno iniziato a indagare sul suo conto. L’inchiesta principale che lo vede al centro di un complesso meccanismo per frodare l'erario però è del 2016. Si tratta dell’operazione Dejavù. La stessa per cui la scorsa estate l’imprenditore viterbese è stato condannato a 5 anni e 4 mesi di reclusione per l’accusa di associazione a delinquere a carattere transnazionale finalizzata alla commissione di reati contro la fede pubblica e il fisco. Condanna patteggiata in appello a 2 anni e 8 mesi che Marchetti sta scontando ai domiciliari.
Insieme a Marchetti erano imputate altre 5 persone, tre di queste chiusero i conti con la giustizia in abbreviato.
Lo scopo era uno: evadere l’iva delle auto importate dall’estero. I meccanismi per riuscirci, invece, molti. Il sistema fraudolento messo in atto si basava in buona sostanza sull’emissione e sull’utilizzo di fatture per operazioni commerciali inesistenti, la falsificazione di documenti amministrativi, l’impiego di false dichiarazioni sostitutive di atto notorio. «In questo modo - spiegano finanza e polizia stradale - era stato possibile all’organizzazione criminale omettere il versamento a favore delle casse dell’erario di Iva dovuta pari a 5 milioni e quattrocentomila euro e di Ires pari a un milione e 500mila euro.
Non solo, l’indebito risparmio fiscale così ottenuto veniva “investito” collocando i beni sul mercato a prezzi estremamente vantaggiosi, a discapito delle imprese concorrenti operanti nel pieno rispetto della normativa fiscale, con estremo danno per la concorrenza e il mercato».