'Ndrangheta viterbese, dagli interrogatori del pentito i segreti del clan

Mafia viterbese, uno degli attentati incendiari
di Maria Letizia Riganelli
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Martedì 24 Dicembre 2019, 20:03

L’impianto accusatorio si rafforza, la difesa viene stravolta. Le parole di Sokol Dervishi, che ha scelto la via della collaborazione con la giustizia, da una parte cementificano ogni accusa a carico del sodalizio mafioso viterbese; dall’altro, mandano nel caos le scelte difensive portate avanti dagli avvocati degli imputati.

Dervishi, braccio destro dei capi della mafia viterbese, il 19 novembre scorso ha deciso di cambiare vita. Ha incontrato i magistrati antimafia capitolini vuotando il sacco. Alle dichiarazioni di quel fatidico martedì in cui si è auto accusato di ogni azione incendiaria e intimidatoria sono seguite anche altre parole.

Pochi giorni dopo aver raccontato che a Viterbo esisteva un sodalizio criminale di stampo mafioso “Codino“ ha continuato a parlare. Avrebbe spiegato per filo e per segno tutto ciò che sarebbe accaduto prima del fatidico novembre 2018. Mese in cui Ismail Rebeshi è stato raggiunto da una misura cautelare emessa dalla Procura di Cagliari.

Rebeshi avrebbe avuto un ruolo di prim’ordine all’interno del clan di albanesi e calabresi. Avrebbe impartito ordini e comandi. Ordini che sarebbero arrivati anche al fratello minore David, che avrebbe continuato a gestire gli affari di famiglia anche dopo gli arresti di Ismail.

Le parole di Sokol, registrate in due diversi interrogatori, non
metterebbero nei guai solo sodali e capi arrestati nell’operazione Erostrato, ma anche quelli finiti agli arresti, per estorsione aggravata dal metodo mafioso, poche settimane fa.

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