Marco Meniero: «Con i miei click immortalo i paesaggi dell'Universo»

Marco Meniero
di Luca Telli
4 Minuti di Lettura
Mercoledì 8 Gennaio 2020, 15:32
L’INTERVISTA
Il destino gioca a carte coperte. Nasconde il filo tra le pieghe del presente e lo illumina quando è già domani. Scale e semi, combinazioni e colori. E poi c’è il jolly, che nella vita di ogni individuo salta fuori in un momento improvviso e cambia tutto. Marco Meniero il suo l’ha pescato una mattina degli anni ’80 a Porta Portese: bancarelle di compensato, facce ruvide e cuori pulsanti che cercano di sbarcare il lunario lontano dalle luci. La borsa nera un ricordo di trent’anni prima tra lingue che si mescolano e si confondono in un esperanto da marciapiede che respira la stessa aria. «Grazie ai miei genitori ho comprato una Zenit 122 a pellicola. È stato il mio primo strumento di lavoro».
Cinque lettere, tre consonanti e due vocali prestate dall’arabo. ‘Direzione’, nel suo significato originale diventato per noi ‘un punto della volta celeste perpendicolare a quello in cui si trova l’osservatore’. Il cielo, uno sbocco naturale. Obiettivo e pellicola il mezzo per assaporarlo. «Avevo 16 anni, grazie alle osservazioni ho conosciuto mi moglie, non so se c’entri il destino, ma non ho più smesso». Poi c’è il resto: civitavecchiese, una laurea in Statistica alla Sapienza, maresciallo dell’Aeronautica e controllore di volo a Grosseto, Pisa e dal 2017 a Viterbo.

Sul motivo per cui ha deciso di iniziare, non ha dubbi:
«È un legame, quello con il cielo, che abbiamo da quando la nostra specie ha iniziato a muovere i primi passi sulla terra. Domande e interrogativi sono gli stessi da sempre, come i sentimenti che suscita. Consapevolezza di essere un granello di sabbia nella clessidra del cosmo. Meraviglia davanti a un’opera grandiosa e insieme malinconia per una luce in differita che magari è spenta da milioni di anni. Un senso di smarrimento che, a carattere personale, mi accompagna».

Più poesia e filosofia, che fotografia. A metà tra le stelle di Pessoa e quelle di Ungaretti.
«Scattare foto è un modo per sentirsi parte del movimento sidereo. Ti muovi con il cosmo nell’apparente immobilità. Un fil rouge che lega tutto. Nelle mie foto cerco di trasferire emozioni che vadano oltre il ritratto. Per questo mi piace accostare corpi celesti a elementi architettonici o paesaggi (Civita di Bagnoregio, Torre di Pisa, Vitorchiano, Castello di Santa Severa) per sottolineare la profonda unione e interconnessione tra gli elementi. Tra la natura e l’opera dell’uomo. Tra una madre e suo figlio. È una consapevolezza che ho da sempre, un bene da comprendere e preservare e che cerco di trasmettere attraverso l’espressione artistica».

Tornando al passato: la Zenit122 è stato il primo passo. Poi com’è andata?
«Ho conosciuto un circolo di astrofili a Civitavecchia, facevano delle osservazioni cadenzate tra la valle del Mignone e i monti della Tolfa. Mi hanno fatto vedere per la prima volta le foto di Marte e Saturno e mi hanno spiegato come avrei potuto farlo anch’io. È stata un’emozione fortissima, una finestra sull’universo che potevo aprire tutte le volte che volevo».

Il primo scatto?
«La costellazione di Orione. La sua nebulosa insieme a quella di Andromeda sono la mia porzione di cielo preferita. Esplosioni di colori brillanti e diversi. Sembra una tavolozza infinita».
C’è uno scatto al quale sei più legato rispetto agli altri?
«Legato forse no, soddisfatto sì. Ho fatto un’osservazione di 24 ore. È stata una sfida con me stesso. Ho fotografato il sole dalla mattina all’alba, poi tramonto, crepuscolo e movimento delle stelle, alla fine sono stati 1180 scatti».

Come modelli, meglio le stelle o i corpi bui?
«Sono concetti diversi. La stella è qualcosa di unico, ma pianeti e satelliti sono una sfida per un astrofotografo. Ci sono aspetti nascosti, zone d’ombra, sfumature nel quale è bello e stimolante addentrarsi. Un cielo nel cielo. La Luna per esempio, ci siamo anche stati ma c’è molto da vedere».

Così devono aver pensato anche alla NASA: 17 agosto 2017, la foto del giorno fu proprio un tuo scatto della Luna
«Una soddisfazione non da poco. I selezionatori del centro spaziale valutano non sono fotografie del cosmo ma anche bellezze naturali ‘terrestri’ per così dire. Sono molti gli italiani che ogni anno riescono a vedere pubblicata una loro foto. Abbiamo una grande scuola».

Non è stata la sua sola soddisfazione
«Ne ho avute molte finora (risponde timido ndr). Ho partecipato anche tenute altre personali e collettive in molte parti del mondo. Da Roma al Maryland, passando per Shangai e Pechino. Una mostra, quest’ultima, itinerante che aveva come leit motiv ‘La via della seta’. Stavolta era l’unico italiano tra i selezionati».

Un maestro in tutti i sensi, anche piuttosto richiesto a quanto pare.
«Ho tenuto un workshop a Kerona, in Lapponia. Sono rimasto una settimana e ho avuto la possibilità di tenere due seminari. Uno pratico e una teorico. Mi sono confrontato con modelli e stili di pensieri diversi».

Che cosa diresti a un tuo studente che vorrebbe fare della fotografia la sua professione?
«Che ci serve passione. Studio e abnegazione. Di non rincorrere i ‘like’ sui social ma di concentrarsi sul concetto di arte e sul messaggio da trasmettere. L’universo è una tavolozza meravigliosa che non è facile da raccontare. Ma se ci riesci, allora il tuo punto di vista sulle cose e sul mondo cambia».

Lasceresti l’Aeronautica per la fotografia?
«Sono i miei grandi amori insieme alla mia famiglia. Una non esclude l’altra».
© RIPRODUZIONE RISERVATA