Mafia, il potere del boss: anche dal carcere continuava a fare affari

Mafia, il potere del boss: anche dal carcere continuava a fare affari
di Maria Letizia Riganelli
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Domenica 20 Settembre 2020, 09:02 - Ultimo aggiornamento: 19:22
«Vincolo associativo e consapevolezza». Il tratto predominante del sodalizio mafioso di Giuseppe Trovato e Ismail Rebeshi è la volontà di agire per raggiungere i proprie obiettivi. Obiettivi chiari e illeciti: terrorizzare per controllare. Due i capi. Uno, Giuseppe Trovato, esaltato dal suo ruolo. L'altro, Ismail Rebeshi, all'apparenza più defilato. Ma nei fatti carismatico e potente. Non è un caso, infatti, che l'albanese è stato l'unico a finire al 41 bis.

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L'unico che da dietro le sbarre ha tentato di continuare a dirigere i suo affari, leciti e illeciti. Rebeshi, insieme alla cognata e alla compagna (per cui si procederà separatamente), è stato condannato anche per intestazione fittizia di società. Questo perché durante la detenzione a Mammagialla ha inviato mail, tutte captate dagli investigatori, in cui ha fatto sì che le sue società passassero di mano ai suoi stretti collaboratori.

«Le indagini economico finanziarie condotte nei confronti di Rebeshi - scrive la giudice nelle motivazioni della sentenza di primo grado - hanno permesso di accertare che è anche il dominus delle società, costituite quando era già detenuto». Cinque le società a lui riconducibili: Auto Riga, Renge club, Perfidiae e Perfidiae1 e Auto Bicu. Attività di rivendita auto nuove e usate o di intrattenimento. «E' emerso - scrive ancora - che il conferimento a terze persone dei poteri di rappresentanza e gestione delle attività, nonché della titolarità di parte delle quote societarie è un espediente puramente formale adottato con lo scopo di garantire all'imputato la prosecuzione delle attività e nel contempo di mantenere il totale controlli delle società evitando confische o sequestri».

I dialoghi telefonici registrati e le mail captate hanno fornito un'unica chiave di lettura dell'esigenza di Rebeshi di ricorrere alla alienazione del proprio patrimonio sia per sovvenzionare la sua carcerazione che per investire i proventi in nuove società, apparentemente intestate a terze persone, costituite con lo scopo di sostituirsi a quelle in cui compariva formalmente come socio. «Ho detto a Justina di fare una nuova società - scrive dal carcere l'albanese - in modo che non figuri il mio nome per niente. Perché è un problema».

La caratura del leader criminale si legge anche nelle parole che rivolge al fratello David: «Ti voglio dire una cosa, mantieni la calma e autocontrollo e prendi in mano la situazione». Una situazione che Rebeshi non ha mai smesso né di amministrare né di rivendicare. Come fa l'11 giugno proprio nel giorno della sentenza. L'albanese prende parola per spiegare al giudice ma soprattutto a tutti i suoi sodali collegati dai vari carceri d'Italia che lui è sempre presente.

Chiuso in strettissima sorveglianza, ma comunque Rebeshi è  ancora in grado di dettare legge e richiamare all'ordine. «Ho sentito l'avvocato di Renzo - dice - che per sbaglio ha nominato il nome del pentito, lo ha chiamato Rebeshi per ben due volte. Voglio che non si fraintenda nessuno. Rebeshi non è un collaboratore. Il collaboratore è Dervishi». Un modo, spiega la giudice nella sentenza per «mettere in chiaro con gli altri sodali la permanenza nell'associazione».
 
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