«È in gioco il futuro della provincia: o diamo una scossa o tra qualche anno rischiamo di camminare sulla macerie». I numeri parlano chiaro: nel 2021 (elaborazione su ultimo dato disponibile in attesa del nuovo rapporto) un lavoratore ha guadagnato in media meno di quanto non succedesse nel 2019: da 16.505 euro di media a 15.103, l’equivalente di una mensilità in meno. Numeri che se non sono una novità per il panorama italiano, dal 2008 infatti i salari sono praticamente fermi, «si accaniscono in particolare sulla Tuscia – commenta il segretario provinciale della Cisl, Fortunato Mannino - da anni denunciamo questa condizione».
A quasi parità di tasso di occupazione le ragioni vanno, in parte, ricercate nel boom di forme di lavoro instabili, come la sotto-occupazione o il part-time involontario, per propria natura incompatibili con un aumento sano dei livelli di retribuzione. «Quello che è certo è che il numero di famiglie in difficoltà è in costante crescita negli ultimi due anni – aggiunge Mannino -. Lo scoppio della pandemia ha infatti scoperchiato il vaso. Poi l’aumento dell’inflazione e la corsa dei prezzi hanno fatto il resto: con questi stipendi andare avanti è un’impresa».
Così si spiega la corsa al bonus, con i Caf presi d’assalto lo scorso gennaio per ottenere la certificazione Isee, e l’aumento della pressione sulle associazioni di beneficenza.
La riduzione dei redditi si traduce anche in un altro problema: da una parte il territorio perde di attrattività per il capitale umano, la manodopera migrante, fondamentale per garantire la tenuta della provincia, dall’altra mette a rischio il sistema di coesione sociale aprendo la strada ad una società sempre meno equa. Un recente studio della Uil aveva analizzato le dichiarazioni dei redditi del 2021: il 49,6 per cento dei dichiaranti della Tuscia ha un reddito annuo inferiore a 15mila euro. Soltanto il 3,3 per cento invece ne ha dichiarato uno superiore ai 55mila.