«Qui è una guerra. Non si riesce a salvare tutti». Il drammatico racconto del volontario viterbese a Brescia

L'ospedale civile di Brescia
di Renato Vigna
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Mercoledì 25 Marzo 2020, 07:44 - Ultimo aggiornamento: 09:18
«Abbiamo paura. Qui siamo in guerra». V.S. è un 39enne di Blera, volontario della Misericordia di Vetralla, da due giorni a Brescia «per dare una mano». La sua scelta è stata pubblicamente elogiata dal sindaco Elena Tolomei con un post su Facebook. Perché ci vuole coraggio a partire per il fronte. Il suo primo turno di 12 ore, la notte tra lunedì e martedì, l'ha segnato profondamente.

«Pensate alle immagini che passano in tv. E rendetevi conto che la situazione è ancora peggiore», racconta. Durante la chiacchierata, ha la voce incrinata dall'emozione. E si scusa in continuazione: «Non riesco a trovare le parole giuste per descrivere, per farvi capire com'è qui», ripete.

Perché si è  offerto di partire?
«Ho semplicemente pensato che, anziché restare a casa ad aspettare che arrivasse quel maledetto virus, sarebbe stato meglio andare in prima linea a combatterlo e ad aiutare».

Alla fine del suo primo turno in ambulanza, quale immagine ha impressa nella mente?
«I familiari dei pazienti che andiamo a visitare a casa. Ti vengono incontro, sono di una bontà mai vista altrove. Anche se sanno che probabilmente non rivedranno più il loro parente se verrà ricoverato, restano gentili con noi. Sembrano rassegnati».

Qual è il tuo lavoro?
«Abbiamo una app con cui la centrale ci comunica il nome del paziente sospetto contagiato e ci invia la sua scheda. Andiamo a casa, gli misuriamo la febbre e la saturazione dell'ossigeno nel sangue. Comunichiamo i parametri e ci dicono se procedere col ricovero o meno».

Quando li portate in ospedale cosa succede?
«Che si fanno file di 2 o 3 ore come minimo. La situazione è al collasso. I letti e i respiratori non ci sono per tutti. A volte ci dicono di trasferire in un ospedale lontano anche diversi chilometri se non c'è posto in città».

Era preparato a una simile situazione?
«Sinceramente? Non trovo le parole adatte per restituire la drammaticità di ciò che ho visto. Qui si salva il salvabile. I medici sono troppo pochi. Sull'ambulanza non ci sono. E nemmeno ci sono gli infermieri. Parto io con l'autista. Non abbiamo neanche l'automedica di appoggio. Niente di niente. Il personale non contagiato ha troppo da fare nei reparti».

Si è pentito di essere partito come volontario?
«Pentito no. Ma ammetto che umanamente è davvero dura. Siamo in prima linea. Ma è più grave di come mi aspettassi. Ho fatto altre esperienze, mi sono trovato in situazioni molto difficili. Ma mai nulla del genere».

Quanto si fermerà?
«Una settimana almeno. Poi non so se dovrò prolungare. Ma ammetto di avere paura».

Cosa teme di più?
«Se ci ammaliamo qui, chi ci cura? È la domanda che ci facciamo sottovoce con i colleghi. A volte nemmeno a parole: ce lo diciamo con lo sguardo».

Se la sente di mandare un messaggio a casa?
«Vorrei mandare un messaggio a tutti: state a casa. Non è uno scherzo, è una guerra. Rimanete chiusi dentro. Fatelo per salvaguardare voi stessi e chi avete più a cuore».
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