Argentina, viaggio a Ushuaia: un tuffo nel blu alla fine del mondo

Argentina, viaggio a Ushuaia: un tuffo nel blu alla fine del mondo
di Alessandra Spinelli
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Giovedì 13 Marzo 2014, 12:58 - Ultimo aggiornamento: 15 Marzo, 16:28
​La Fine del mondo un prato verdissimo lambito da acqua gelata e cristallina che al primo sprazzo di sole, rivelato dalle nuvole scostate dal vento polare, diventa color cobalto e specchia le cime nere e innevate delle montagne della catena andina dei Martial. Su un pontile, in una casetta di lamiera e legno in questo ultimo lembo di Patagonia al Puerto Garani, un signore dai baffoni candidi alla Cecco Beppe, di nome Carlos, dal 1997 dirige l’ultimo ufficio postale del globo. Con gesti solenni e rumorosi imprime enormi timbri per certificare che sì, sei arrivato fino lì, al Pais de Isla Redonda, piccolo regno immaginario della Tierra del Fuego. Dove finisce la mitica Highway Panamericana che corre giù fin dall’Alaska per 17.848 chilometri.



A 3.000 chilometri da Buenos Aires, ben oltre lo stretto di Magellano, la colorata, disordinata e polverosa Ushuaia, la città più a Sud di tutte le città, sul canale di Beagle che deve il nome alla nave della Reale marina britannica dove viaggiavano il capitan Robert Fitzroy e il curioso Charles Darwin. Nella miriade di isole e scogli, tra fiordi e grandi ghiacciai - Italia, Francia, Germania, Olanda e Romanche - migliaia di uccelli capitanati dai cormorani dal petto bianco, colonie di pinguini dalle più diverse grandezze, elefanti marini e foche. Di qua l’Argentina, dall’altra parte il Cile: passano orche e s’intravedono code di balene. E poi il mitico Capo Horn, il Passaggio di Drake dalle alte onde e poi ancora più giù il silenzioso Antartide. Ed è lì che porta il viaggio, ed è lì che acquista senso la domanda del libro di Bruce Chatwin Che ci faccio qui?.



LA CAPITALE DELLE MALVINAS

Qui invece, al parallelo numero 55, scopri che il Fuego era quello che accendevano gli antichi Yàmani (o Yàgani) rappresentati seminudi nel Museo della Fine del mondo a pochi passi dalla banchina di Ushuaia dove attraccano navi da crociera come la nostra, l’Infinity Celebrity Cruises, e traghettoni verso il Polo Sud con tanto di Zodiac al seguito per sbarcare sulla banchisa o su un iceberg. «Ushuaia capitale delle Malvinas, no ai pirati inglesi» è scritto all’ingresso del porto e si capisce subito come la ferita Falkland non si sia mai chiusa. La musica del mercatino artigianale accompagna i passi di una tiepida mattina - 8 gradi - di fine estate, tra le stradine gonfie di negozi per turisti, di ristoranti - il granchio di Magellano e il salmone sono le specialità del luogo - e di poco altro. Nella cittadina ricostruita nel ’48 dall’imprenditore bolognese Carlo Borsari, campeggia il grande oratorio dedicato a Don Bosco e il museo della Prigione, visto che qui venivano confinati i criminali argentini. Poi o su un pulmino o sul lentissimo trenino degli ex carcerati, ci si addentra nel Parco nazionale della Tierra del Fuego, tra boschi profumati, laghi sacri e piccole colline che un tempo erano ammassi di conchiglie lasciate dai nativi. «No», dicono i cartelli, «qui non si può dare da mangiare alle zorros», ovvero alle volpi rosse, che scorrazzano quasi indisturbate, insieme alle loro prede, conigli e castori, nei diversi sentieri, paradiso degli amanti del trekking e del campeggio. La Patagonia esplode in mille sfumature anche se il cielo sembra appoggiarsi sulle spalle e la nebbia è lì lì per rapirti. Su un catamarano si esplora il canale di Beagle - scogli pieni di animali, ruggiti dei leoni marini, voli bassi di uccelli e un’inconfondibile puzza di guano ti convincono che non sei in un documentario del National Geographic - fino al mitico, sì anche questo, faro di San Juan de Salvamento, immortalato anche da Jules Verne nel Il faro in capo al mondo.



L’ALTRO CONTINENTE

Addio America Latina, si salpa verso Sud, la tempesta polare è passata lasciando onde che il comandante greco della nave stima sui 7-9 metri e nonostante gli enormi stabilizzatori si balla un po’ verso Capo Horn. Che appare all’improvviso illuminato dal sole come da un occhio di bue sul palcoscenico del mare. Lo skyline è inconfondibile, è l’ultimissima terra ed è già alle spalle nel Passaggio di Drake, ci si raduna tutti sul ponte per le informazioni primarie sulla rotta. L’Oceano Atlantico del Sud diventa sempre più grigio, non è solo il cielo che cambia veloce, è proprio la sua densità a dargli la tonalità mercurio mentre l’onda si ferma, si gela, qua e là. Quanti gradi faranno? Il termometro si fissa sui 2 Celsius poi arriva a zero e scende a meno tre. Nevischia mentre imbacuccati ben bene ci si sporge per vedere i primi iceberg che corrono attorno alla nave e le pinne e le code degli animali. C’è chi gioca a basket sul ponte 12 mentre ci si addentra nella Penisola Antartica fino a Paradise Bay. Ed è tutto blu. Silenzioso e blu. In alto il nero delle montagne - il Polo Sud è un vero continente - sotto il bianco del ghiaccio e sotto ancora il blu, frastagliato, modellato da acqua e vento, in tutte le sue trentasei sfumature, dall’indaco al Blu Tiffany. Non un rumore, tutto immobile e perfetto. Anche quel puntino rosso in mezzo al bianco, la stazione scientifica argentina Almirante Brown, ormai in disuso. Quasi un quadro. E si capisce, qui davvero, la risposta al quesito di Chatwin. «Che ci faccio qui?» Vivo e respiro la meraviglia del mondo che non finisce.