Papa Francesco, per la gente del Sud Sudan è un profeta e un santo, il testamento che lascia in Africa è la riconciliazione

Papa Francesco, per la gente del Sud Sudan è un profeta e un santo, il testamento che lascia in Africa è la riconciliazione
di Franca Giansoldati
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Domenica 5 Febbraio 2023, 17:56

C'è gente che si è messa in cammino dieci giorni fa, sopportando il caldo e la fatica, spesso anche l'insicurezza che si riscontra ancora in alcune zone, pur di raggiungere Juba, la capitale, e vedere “Pope Francis” ritenuto in Sud Sudan un profeta, un nume tutelare, uno degli artefici della pace. A volte i gruppi di poveri viandanti non sono nemmeno provvisti di scarpe adatte per affrontare centinaia di chilometri a piedi: dalle immagini diffuse dalla BBC si vedono persone ben poco attrezzate sebbene dotate di una abbondante dose di entusiasmo. Una gioia che sembra davvero incontenibile. Probabilmente in Sud Sudan - nazione che ha raggiunto l'indipendenza nel 2011 e che tuttora è funestata da violenze inter-tribali (anche tre giorni fa, a 150 chilometri da dove risiede Bergoglio sono state massacrate 21 persone, uomini e donne) - una festa nazionale del genere non si vedeva da tempo immemorabile. Da prima della guerra civile. Tra i pellegrini arrivati nella capitale, alla guida di uno dei gruppi più numerosi, c'è un missionario italiano, il vescovo Christian Carlassare che dalla diocesi di Rumbek, situata più a nord, ha accompagnato famiglie, giovani, scout, catechisti. Lui stesso nel 2021 è stato vittima di un attentato. E' rimasto miracolosamente in vita anche se ha dovuto sottoporsi a una serie di interventi per camminare.

Poi c'è suor Orla Treacy, 50 anni, delle Suore di Loreto, di origine irlandese, anche lei missionaria che ha raccontato all'Ansa: «È stata una bellissima esperienza, per rafforzare la comunità e portare un messaggio di riconciliazione».

Il dono della pace è l'invocazione che affiora di continuo nello storico viaggio del Papa, primo pontefice a mettere piede a quelle latitudini, accompagnato dall'arcivescovo di Canterbury, Justin Welby e dal Moderatore della Chiesa di Scozia, Iain Greenshields, uniti in una troika religiosa inedita ed efficace che ha saputo lavorare assieme, in parallelo alle organizzazioni internazionali per non far naufragare gli accordi che hanno messo fine alla guerra civile tra le due fazioni guidate dal presidente Salva Kiir e dal suo ex rivale, l'attuale vice presidente Mashar. Ai due leader politici è stato chiesto di avviare "un nuovo inizio" verso la riconciliazione e porre fine all'avidità e alle lotte di potere che stanno lacerando la nazione. Uno dei fattori di instabilità resta innegabilmente legato alla gestione degli enormi giacimenti di petrolio che, per paradosso, invece di produrre ricchezza nazionale continuano a gonfiare le tasche di pochi lasciando in miseria la stragrande maggioranza della gente. «Le generazioni future venereranno i vostri nomi o ne cancelleranno la memoria, in base a ciò che farete ora» ha ammonito il Papa ricordando che «le acque del grande fiume raccolgono i gemiti sofferenti delle vostre comunità, raccolgono il grido di dolore di tante vite spezzate, raccolgono il dramma di un popolo in fuga, l’afflizione del cuore delle donne e la paura impressa negli occhi dei bambini. Si vede, la paura, negli occhi dei bambini».

Circa 380.000 persone sono morte in cinque anni di spargimenti di sangue prima che la guerra civile terminasse formalmente nel 2018, con un cessate il fuoco tra i leader in guerra che rimangono al potere oggi. Salva Kiir e Mashar sono stati ospiti da Papa Francesco a Santa Marta per un ritiro spirituale alcuni anni fa, al termine del quale il pontefice compì un gesto inedito e potente, chinandosi a baciare le scarpe di entrambi, implorando loro di deporre le armi e provare a tessere una vita migliore per tutti ma si stima che nel 2023 otto milioni di persone – riferisce l'Onu - soffriranno ancora a causa della crisi alimentare.

Ieri il Papa ha incontrato un gruppo di persone che vivono in un campo profughi fuori Juba, costretti a ripararsi per sfuggire alla violenza etnica durante la guerra. Joseph Lat Gatmai è un ragazzo di 16 anni. Ha esordito così: “Sono arrivato nel campo profughi di Bentiu con i miei genitori nel maggio 2015 e vivo nel campo da più di otto anni. Ho completato la mia istruzione primaria e il mio sogno è di continuare gli studi fino all'università, nel nome di Gesù. La mia vita non è piacevole e mi preoccupo di come sarà in futuro, anche quella degli altri bambini. In questi anni siamo sopravvissuti grazie agli aiuti umanitari. Se ci fosse stata la pace, sarei rimasto nella mia casa d'origine, avrei vissuto una vita migliore e mi sarei goduto l’infanzia”. Il Sud Sudan è il Paese africano con il maggior numero di sfollati: 2 milioni all'interno del Paese e 2 milioni fuori dai confini. 

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