Papa Francesco a Trudeau ribadisce: la corsa agli armamenti non porta alla pace (nemmeno a Kiev che attende armi per difendersi)

L'incontro in Quebec tra il presidente Justin Trudeau e Papa Francesco
di Franca Giansoldati
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Giovedì 28 Luglio 2022, 00:46 - Ultimo aggiornamento: 00:47

Quebec City (Canada) – Papa Francesco è sicuro che la corsa agli armamenti non porterà la pace da nessuna parte nel mondo. Tantomeno in Ucraina. «Non abbiamo bisogno di dividere il mondo in amici e nemici, di prendere le distanze e riarmarci fino ai denti: non saranno la corsa agli armamenti e le strategie di deterrenza a portare pace e sicurezza». Davanti al presidente Justin Trudeau incontrato a Quebec City, seconda tappa del suo viaggio in Canada, pronuncia un discorso in cui, in un passo, evoca quello che sta accadendo a Kiev dove l'esercito ucraino è in attesa di ricevere armi per difendersi dagli attacchi della Russia dopo l'aggressione decisa dal presidente Putin nel febbraio scorso. Proprio mentre in Italia è in arrivo il quarto decreto per l'invio di equipaggiamenti militari diretti a Kiev (blindati, anti-mine e sistemi di difesa antiaerei) il Papa condanna nuovamente e senz'appello la logica del riarmo. Ripetendo ancora una volta che la strada per arrivare ad un cessate il fuoco dovrebbe andare verso altre direzioni escludendo l'invio di armi e senza fare menzione al diritto alla difesa (peraltro previsto dal Catechismo)

Il tema delle armi in Ucraina è particolarmente sentito in Canada dove vive una nutrita comunità di ucraini, tanto che la bandiera gialla e blu è spesso affiancata nelle strade a quella canadese, rossa e bianca con la foglia dell'acero. «Non c’è bisogno di chiedersi come proseguire le guerre, ma come fermarle. E di impedire che i popoli siano tenuti nuovamente in ostaggio dalla morsa di spaventose guerre fredde allargate. C’è bisogno di politiche creative e lungimiranti, che sappiano uscire dagli schemi delle parti per dare risposte alle sfide globali».

Francesco ha poi continuato: «Di fronte all’insensata follia della guerra, abbiamo nuovamente bisogno di lenire gli estremismi della contrapposizione e di curare le ferite dell’odio.

Una testimone di tragiche violenze passate come Edith Bruck ha recentemente detto che la pace ha un suo segreto: non odiare mai nessuno. Se si vuole vivere non si deve mai odiare». 

Papa Francesco pur avendo ampiamente condannato le violenze e i bombardamenti russi, finora ha evitato di pronunciare il nome del presidente Vladimir Putin, artefice di questa invasione nel cuore dell'Europa. Recentemente ha fatto presente che anche la Nato ha le sue responsabilità, visto che avrebbe contribuito ad inasprire e irritare la controparte, «abbaiando ai confini della Federazione russa». La linea del pontefice è palesemente alla ricerca di un modo per non chiudersi alle spalle l'interlocuzione con i russi, nel tentativo di lasciarsi aperti eventuali spazi di manovra diplomatica. Il cardinale Pietro Parolin in diverse occasioni ha ripetuto come un mantra che la Santa Sede è sempre pronta a svolgere il ruolo di facilitatore.

A settembre Papa Francesco ha confermato di avere messo in agenda un viaggio in Kazakistan dove si terrà un summit inter religioso al quale ha dato la sua adesione anche il patriarca ortodosso Kirill, l'esponente religioso più vicino a Putin (al punto da benedire la guerra). Naturalmente il Papa ha contestato a Kirill questa lettura, dicendo che non è possibile fare i chierichetti di Stato benchè in parallelo, nel silenzio delle diplomazie, i rapporti tra Mosca e Roma dal punto di vista ecumenico proseguono dietro le quinte.

La posizione di equidistanza dalle parti del pontefice potrebbe complicarsi se andasse in Kazakistan prima di andare a Kiev dove finora non è mai voluto (o potuto) andare, rimandando sempre per un motivo o per l'altro il progetto. Il ministro degli esteri vaticano, monsignor Paul Gallagher poco tempo fa si è lasciato sfuggire la possibilità di organizzare un viaggio lampo, in treno, in pieno agosto (anticipando il Kazakistan) ma tutto sembra essere ancora in alto mare. A tutti è ben chiaro che gli ucraini che stanno aspettando il Papa da febbraio difficilmente sopporteranno l'idea di un abbraccio con il patriarca Kirill prima di una preghiera sulle tombe dei loro morti nelle loro città bombardate e devastate. 

Nel discorso in Quebec Papa Francesco ha ripreso in diversi passaggi il filo della pace senza però offrire percorsi concreti. «La politica non può rimanere prigioniera di interessi di parte. Occorre saper guardare, come la sapienza indigena insegna, alle sette generazioni future, non alle convenienze immediate, alle scadenze elettorali, al sostegno delle lobby. E anche valorizzare i desideri di fraternità, giustizia e pace delle nuove generazioni» ha scandito il pontefice. 

Francesco pensa al futuro dei giovani, li incoraggia ad andare avanti nella lotta contro i cambiamenti climatici. Li sprona a credere nella possibilità di un sistema differente, meno sbilanciato e non in mano a interessi di parte. La stessa road map contenuta nelle pagine della Laudato Si, la prima enciclica verde promulgata nel 2015. In questa cornice un ruolo primario nella difesa del creato la dovranno assumere le popolazioni indigene – inuit, metis, first nations - da sempre unite in modo simbiotico con la natura. 

Il filo del ragionamento prende poi la direzione di una ferma condanna verso la mentalità colonialista che nel passato ha cercato di cancellare la cultura autoctona. «Quella storia di dolore e di disprezzo, originata da una mentalità colonizzatrice, non si risana facilmente. Al tempo stesso, ci mette in guardia sul fatto che la colonizzazione non si ferma, piuttosto in alcune zone si trasforma, si maschera e si nasconde». 

Se nel passato sono stati imposti alla gente modelli culturali occidentali, anche oggi, ha denunciato Papa Francesco, si sta facendo il medesimo errore con la deriva della cosiddetta cancel culture. «È una mentalità che, presumendo di aver superato le pagine buie della storia, fa spazio a quella cancel culture che valuta il passato solo in base a certe categorie attuali. Così si impianta una moda culturale che uniforma, rende tutto uguale, non tollera differenze e si concentra solo sul momento presente, sui bisogni e sui diritti degli individui, trascurando spesso i doveri nei riguardi dei più deboli e fragili: poveri, migranti, anziani, ammalati, nascituri. Sono loro i dimenticati nelle società del benessere; sono loro che, nell’indifferenza generale, vengono scartati come foglie secche da bruciare». 

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