Monsignor Fisichella: «La morte è entrata nella quotidianità così si sono sbriciolati i nostri tabù»

Monsignor Fisichella: «La morte è entrata nella quotidianità così si sono sbriciolati i nostri tabù»
di Franca GIansoldati
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Giovedì 18 Marzo 2021, 08:46 - Ultimo aggiornamento: 09:20

Città del Vaticano -  «Porto sulla mia pelle il fatto di essere nato a Codogno. In un anno tante persone a me care sono morte. Amici, conoscenti, sacerdoti. L'immagine storica dei camion carichi di bare segna l'inizio della consapevolezza di qualcosa che avrebbe modificato l'umanità intera, non solo l'Italia o l'Europa. Segna l'avvio di una stagione nuova alla quale l'umanità da sola non poteva farvi fronte immediatamente. Poi c'è un'altra immagine, ancora più potente». Monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione e teologo tra i più affermati a livello internazionale, riflette sui dodici mesi che hanno cambiato volto al pianeta.


 

Quale è l'altra immagine?
«Il 27 marzo dell'anno scorso.

Il Papa da solo a San Pietro. Rappresenta l'umanità smarrita alla ricerca di senso. La gente era chiusa nelle proprie case, senza avere rapporti interpersonali con le persone vicine e amate e con la consapevolezza delle morti che si allungavano senza nemmeno poter dare loro un ultimo saluto. Forse mai come in quel tempo segnato dal Covid l'umanità ha alzato gli occhi al cielo».


E' stato fatto un sondaggio dal Messaggero: dall'anno scorso a oggi è aumentata la percezione della incertezza, della paura, della tristezza...
«C'è una enorme, macroscopica riflessione da fare. Siamo di fronte ad un fenomeno significativo per la cultura del nostro tempo. Stiamo toccando con mano l'inizio della post modernità. Quello che sta accadendo ci dice che è finita l'epoca moderna e non sappiamo ancora cosa sia il futuro. Davanti a questi fatti l'illusione che tutto è così bello come ci è stato presentato negli ultimi decenni e che l'uomo da solo gestisce la sua vita, ci fa capire che non è così. Il Papa il 27 marzo dell'anno scorso a San Pietro ha parlato della barca in mezzo alla tempesta e ha quasi gridato, perché avete paura, non avete ancora fede?»
C'è ancora spazio per la speranza?
«L'immagine della barca di Pietro è fondamentale. Il Papa ci ha ricordato che il dramma non è una tragedia. Nella tragedia non c'è mai speranza, nel dramma invece sì».
La morte, lo dice lo stesso sondaggio, sembra impressionare molto meno, come se ci avessimo fatto il callo...
«La morte di fatto è entrata nella nostra vita quotidiana e ha sbriciolato un tabù. Le immagini delle bare che uscivano sui camion militari da Bergamo hanno fatto capire che la morte non era una fiction e restano impresse. L'immaginario da allora è cambiato».
Se c'è bisogno di speranza perché le chiese restano vuote?
«Il problema di dare voce alla speranza si rapporta alla capacità di parlare con un linguaggio nuovo. Forse siamo ancora inseriti dentro un linguaggio troppo tradizionale. Forse dovremmo riflettere su come usare al meglio quelli che sono i messaggi della fede, sul fatto che la morte, la malattia e la sofferenza sono vissute e sono state vinte».
La fede come può andare di pari passo con la scienza?
«Un uomo di fede ha sempre fiducia nella scienza perché ha fiducia nella opera creativa, nella intelligenza dell'uomo: saper parlare di speranza significa andare al di là dei messaggi e creare dei segni di speranza. E' questa è la grande sfida che tocca il momento storico che stiamo vivendo».
Forse la Chiesa parla troppo poco della vita dopo la morte?
«Tendenzialmente si parla poco di questo perché siamo anche noi vittime della crisi di fede che si vive in Occidente. A volte c'è l'incapacità di dare il primato al mistero della nostra vita. Il mistero non è ciò che non si capisce, ma il rimanere in silenzio a contemplare per entrare in profondità e lasciare la mente e il cuore aperti a ricevere anche una illuminazione. Noi abbiamo dimenticato questa dimensione, riportare il mistero di un Dio che si fa uomo e vince la morte».
Cosa dire allora a chi ha perso amici e parenti a causa del Covid?
«Chi abbiamo amato tanto mantiene una forte presenza in mezzo a noi. La forza dell'amore dura per sempre. L'autentico amore va oltre la morte. E Dio che è amore ha vinto la morte. E quando si parla con una persona che vive un lutto sa bene che ha accanto a sé la presenza della persona defunta, che si è trasformata in altro modo»

Lei dice che di fatto siamo entrati nella post-modernità, ci spiega meglio?

«Stiamo toccando con mano - con la pandemia e con le vicissitutini che sitamo vivendo - che cosa sia effettivamente l'ingresso dell'umanità nella nuova cultura, che è la cultura digitale, dove la notizia arriva immediatamente da una parte all'altra del mondo. E' una cultura che cambia i comportamenti delle persone e che fa saltare le categorie tradizionali con le quali abbiamo sempre fatto i conti e ragionato. Tanto per cominciare le categorie spazio-temporali poichè viviano nella immediatezza. Ed è in questo quadro che predomina l'elemento della tecnologia che, pur offrendo notevoli certezze all'uomo contemporaneo, in un frangente come questo, mette la vita in mano ad un algoritmo. Naturalmente il senso della vita va ben al di là della scienza e non sarà di certo un algoritmo a determinare quando si può entrare o no in contatto o in relazione con il prossimo. La prospettiva immediata ci fa capire bene come sarà la vita nei prossimi decenni. Per certi versi il dramma che stiamo vivendo offre a tutti l'opportunità di riflettere sul senso della vita, sul suo mistero, sulla morte, sulla capacità dell'uomo di amare e guardare molto più in avanti, di alzare gli occhi al Cielo e sentirsi parte della creazione di Dio»

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