Covid Umbria, l'anestesista: «Tra terza ondata e variante, a Perugia siamo stremati. Errore riaprire così presto»

Covid Umbria, l'anestesista: «Tra terza ondata e variante a Perugia siamo stremati, un errore riaprire così presto»
di Italo Carmignani e Fabio Nucci
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Mercoledì 10 Febbraio 2021, 07:45 - Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 21:04

Si sentono protetti, perché vaccinati, ma non invincibili. Sono i medici dell'ospedale di Perugia finito nel ciclone chiamato variante brasilina del SarsCov2. E più che del virus hanno paura di non riuscire ad aiutare chi ha bisogno della loro piena efficienza. Timori confidati da un anestesista alla collega Cristina Cenci, vice segretario regionale del Cimo Umbria, già a fine dicembre.


Dottoressa Cenci, lei aveva denunciato il pericolo di arrivare a una situazione simile a fine dicembre?
«Un collega anestesista di Perugia mi chiese di aiutarlo a dire la verità prima che arrivasse la terza ondata. Lui non è voluto comparire ma il suo appello l'ho veicolato, mettendo le mani avanti e dicendo che se fosse arrivata, la terza ondata ci avrebbe travolto non trovando il personale medico e sanitario adeguato ad affrontare tale emergenza. Visto dall'interno il problema più grande, specie a Perugia, è la gestione dei posti letto, la loro carenza insieme a quella del personale. C'è anche un problema di commistione di percorsi sporco-pulito».
In più c'è stato l'arrivo della variante brasiliana.
«Questi focolai hanno aggravato una situazione già tesa, ma Perugia non è l'unico ospedale con cluster all'interno. Guardiamo allarmati a tale fenomeno che non nasce dall'oggi al domani: i focolai risalgono all'inizio di gennaio e non voglio dire che qualcosa non abbia funzionato nella messa in sicurezza degli ospedali, ma se si lavora costantemente in emergenza, perché manca personale e non c'è chi controlla ciò che devi fare, qualcosa salta».
Com'è la situazione dentro l'ospedale di Perugia?
«C'è una grande sofferenza di personale sanitario medico e non medico dovuto ai focolai che hanno tenuto fuori dal lavoro una settantina di operatori tra medici e infermieri. Pesa anche l'aver lavorato da marzo ad oggi in condizioni di fretta e di affanno e il non aver ripristinato i numeri, quei 350 medici che a livello regionale mancano rispetto alle dotazioni organiche che le stesse aziende avevano approvato con l'ultimo atto prima di Sanitopoli».
Come si affronta un'emergenza nell'emergenza?
«Stiamo lavorando sopra le nostre forze, ma quando si lavora in queste condizioni si abbassa il livello della qualità delle cure. Come succede nelle catastrofi, con un gran numero di assistiti, si cerca di salvare il massimo delle persone».
Qual è lo stato psico-fisico dei medici oggi?
«Siamo stremati. Osannati a marzo come eroi, siamo tornati ad essere carne da macello da mandare in prima linea senza adeguamento dei riposi, senza colleghi che ci potessero aiutare. Siamo tanto provati emotivamente perché l'impatto di tante persone che non respirano è faticoso da gestire al pari delle telefonate coi familiari. E ora c'è il timore anche di dover gestire la carenza di dispositivi (caschi e alti flussi)».
C'è un rischio burn-out?
«Il personale è ancora molto motivato, sta dando il massimo, rimane dentro l'ospedale senza far caso a quanto tempo lavora. Un po' qualcuno sta cedendo anche sul lato emotivo, ma non abbiamo paura: forse ci sentiamo più forti perché protetti dal vaccino ma il nostro timore è non poter garantire a tutti ciò che va garantito, soprattutto per le terapie intensive. Abbiamo 79 degenti Covid nella regione, un record, e ci sono anche gli altri pazienti».
Si potevano evitare i focolai ospedalieri?
«Ci siamo stupiti quando a dicembre, nel momento in cui la curva epidemica è un po' calata, è stato deciso di riaprire alle assistenze, ai parenti. Forse è stata una decisione non avveduta: abbiamo anche continuato a gestire le prestazioni ambulatoriali con lo stesso pool di medici che gestiva le corsie pulite e le corsie Covid».
C'è anche rabbia?
«Un po' sì.

Le disposizioni arrivano sempre un po' troppo tardi rispetto a quando si segnalano i rischi. I colleghi tuttavia stringono i ranghi: stanno tutti dando il massimo, nessuno si tira indietro, ma se ci dovessero chiedere più di questo il sistema rischia di saltare».

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