«Dal sogno all'apocalisse: nessun perdono per Schettino»

Italo Ginevri e Catia Antoniella all'indomani del naufragio
di Ilaria Bosi
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Venerdì 14 Gennaio 2022, 15:33 - Ultimo aggiornamento: 15:37

CASTEL RITALDI - Le urla disperate della gente, miste al terrore stampato negli occhi dei bambini, tornano spesso a bussare di notte, impetuose, nonostante siano trascorsi 10 anni. Così come il buio, il freddo e lo strazio di ore interminabili vissute nel limbo, a bordo di quel gigante del mare piegato in pochi istanti come un lume di cera, tra persone disperate in cerca di salvezza negli abissi gelidi del Tirreno, scialuppe bloccate e giubbotti di salvataggio introvabili. La sera in cui la Costa Concordia è naufragata dopo aver urtato gli scogli delle Scole, davanti all’Isola del Giglio, Catia Antoniella aveva da poche ore iniziato insieme al marito Italo Ginevri la «prima crociera», un viaggio a lungo agognato: «Era il sogno della mia vita», racconta con amarezza. I ricordi sono nitidi, come la paura, le preghiere e i pianti di quella notte surreale, di fronte al personale di bordo impreparato, che invitava tutti a tornare nelle cabine, assicurando che non c’era di che preoccuparsi: «Ci dicevano che era solo un guasto tecnico, un blackout, ma sapevamo benissimo che non era così: quella notte è stata un’apocalisse. Ho ancora davanti agli occhi l’immagine di una donna in carrozzina incastrata a una porta: ho cercato disperatamente di aiutarla, poi mi hanno trascinato via. Oppure quella di un uomo incontrato nel punto più alto della nave, il Ponte 12: aveva il giubbotto di salvataggio indossato e altri in mano, ma non voleva cederli. Ne eravamo tutti sprovvisti, gliene ho strappato uno di mano». Lo sguardo di Catia, nel racconto denso di emozioni e sensazioni che il tempo non ha scalfito, si rabbuia solo di fronte a un nome: Francesco Schettino. «Mi vengono i brividi solo a sentirne parlare e non riesco a vederlo quando passano le immagini in televisione. Si è comportato in un modo a dir poco inqualificabile: non avrebbe mai dovuto abbandonare la nave, né dire – come ha fatto successivamente – di essere scivolato casualmente su una scialuppa. Non ha mai mostrato umiltà, mai l’ho sentito chiedere scusa, almeno per rispetto delle 32 vittime, che potevano essere salvate se solo la nave non fosse stata lasciata in balia degli eventi». Il racconto di Catia e Italo, che abitano a Castel Ritaldi e all’epoca avevano una tabaccheria a Bevagna, è nitido. In quelle ore di angoscia, hanno vissuto anche un’altra sventura: guadagnato a fatica un posto in scialuppa, si sono dovuti riaggrappare presto in nave, perché la Concordia si stava inclinando e la barca di salvataggio era rimasta bloccata. «Lì ho pensato che non ce l’avremmo fatta: piangevo e urlavo i nomi delle mie figlie, che pensavo di non rivedere più». Poi l’approdo al Giglio, sulla zattera dove sono stati soccorsi dopo aver scivolato lungo la parete esterna della nave. «Erano le 2 di notte – racconta ancora Catia – e la prima cosa che ha fatto mio marito è stato baciare terra. Gli abitanti dell’Isola del Giglio sono stati straordinari con tutti noi. Forse un giorno torneremo a ringraziarli di persona, ma ancora non riesco a tornare lì». Trascorsa la notte nell’isola, insieme a una coppia veneta con cui poi è nata una «bellissima amicizia», Catia e Italo sono stati accompagnati a Civitavecchia il giorno dopo: «Io ero vestita leggerissima e non avevo le scarpe, perse nei primi istanti di allarme in nave. È stata una commerciante di Civitavecchia a portarmi un paio di stivali caldi. Gesti fatti col cuore e che non dimentichiamo. Come il dolore di quell’esperienza». 

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