Caso Capecchi, torture psicologiche anzichè 20 giorni di libertà

Caso Capecchi, torture psicologiche anzichè 20 giorni di libertà
di Gianni Agostinelli
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Domenica 19 Giugno 2022, 07:03 - Ultimo aggiornamento: 07:05

PERUGIA “Quello che stanno facendo a Riccardo è un processo ingiusto perché in mano non hanno niente. Nessuna prova reale del suo coinvolgimento”. Nell'ultima settimana si sono succeduti i testimoni chiamati dagli avvocati del fotografo castiglionese a processo in Perù con l'accusa di traffico internazionale di droga e il dato più rilevante a suo carico resta sempre il medesimo. “Solo quell'automezzo intestato” concordano quanti sono stati chiamati della difesa, catapultati a respirare il clima di un processo spigoloso e duro, e che hanno poi dovuto controrispondere alla parte dell'accusa nelle udienze svoltesi online. Lo stesso Riccardo Capecchi, su cui pende la richiesta di sedici anni di carcere, ha sempre sostenuto la propria innocenza e della sua condotta non ha mai dubitato nessuna delle persone che lo hanno conosciuto come fotografo, tanto che al suo fianco si sono da subito schierate le due amministrazioni locali del Trasimeno. Quella di Castiglione del Lago, dove Riccardo ha vissuto fino a quel fatidico maggio 2019, e quella di Magione, paese di residenza della sua compagna. Guidate dai sindaci Matteo Burico e Giacomo Chiodini i due Comuni sono stati i capofila delle manifestazioni e sit-in che nei mesi scorsi hanno coinvolto i cittadini, la squadra di rugby presso cui Riccardo prestava il suo lavoro e il comitato “Verità su Riccardo” sorto grazie a Paolo Brancaleoni in conseguenza del fermo, poi tramutato in un arresto preventivo di Riccardo e durato nove mesi. Nella settimana di udienze che si sono protratte fino alla notte fonda del fuso orario italiano, l'accusa ha cercato di ricostruire la figura di Riccardo Capecchi con domande che hanno riguardato poco o nulla la sua attività di fotografo, puntando maggiormente ad approfondire la situazione finanziaria e patrimoniale, e anche sul pagamento degli oneri statali derivanti dalla sua attività di fotografo. Domande riguardanti anche il denaro portato in Perù da Riccardo e le sue carte di credito. A Capecchi non è stata concessa la possibilità di chiamare come uditori altre persone né quella di aggiornare la lista di persone da coinvolgere in sua difesa rispetto ai nomi fatti tre anni fa al momento del fermo. L'unico filo rosso che lega Capecchi al processo è il fatto che il mezzo di trasporto (su cui per altro non era stata rinvenuta nessuna traccia di droga) era intestato al fotografo umbro. “Ma non poteva essere altrimenti” ha ripetuto più volte lo stesso Riccardo, perché il mezzo per essere “sdoganato” in Perù doveva essere intestato a lui, che era arrivato a Lima con quella che si è rivelata un'illusione, cioè un viaggio di lavoro per il Sud America. Le testimonianze chiamate dalla difesa sono terminate mentre resta aperto il fronte della restituzione dell'attrezzatura fotografica sequestrata a Capecchi e più volte richiesta dai suoi avvocati. Il pm ha nuovamente sottolineato la legittimità del sequestro dei beni rimpallando la decisione al giudice che in aprile aveva dato mandato proprio al pm di occuparsi della restituzione delle macchine fotografiche e che per di più non sono oggetto di investigazione. Altro capitolo del processo è quello riguardante il permesso prima concesso e poi ritirato a Capecchi. A maggio la buona notizia della concessione di venti giorni di permesso, con cui avrebbe potuto fare ritorno in Italia “per motivi umanitari” si è trasformata in un doloroso boomerang visto che la pratica è stata contestata dal pm e ora giace tra le pratiche dell'ufficio immigrazione peruviano. “Uno smacco enorme, un grande dispiacere” dicono i familiari che avrebbero voluto riabbracciare Riccardo per la prima volta dall'inizio dell'odissea.

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