L'orrore di Po' Bandino. Il papà: «Alle tre il mio Alex era già morto».

Il supermercato dove è stato lasciato il bambino morto
di Egle Priolo
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Martedì 5 Ottobre 2021, 07:09

PERUGIA «Alle tre il mio Alex era già morto». A parlare è Norbert Juhász, il padre del bimbo ucciso a coltellate nella vecchia centrale Enel di Po' Bandino. La mamma, Katalina Erzsebet Bradacs, lo ha portato nel supermercato dall'altra parte della strada a quell'ora, ma «alle dodici ha chiamato il figlio maggiore e gli ha inviato la foto in cui Alex era grondante di sangue, con gli occhi chiusi...». Norbert, chef attualmente impiegato in un'agenzia di organizzazione eventi, non ha più lacrime per descrivere l'abisso in cui è caduto da quando ha visto quell'immagine: «A suo figlio ha detto di dirmi che io avevo chiuso col mio». Non ha dubbi, quindi, che - sebbene lei continui a professarsi innocente e ieri abbia dichiarato davanti al giudice di essere venuta in Italia in vacanza, per allontanarsi dall'ex compagno e dalla madre che ha anche accusato di violenza nei confronti del bimbo – sia stata lei a uccidere il figlio di poco più di due anni. «È stato un piano? Sì, eseguito brutalmente». Dal rapimento dopo la sentenza di affidamento al passaggio a Roma e poi a Chiusi. Fino a via Molise. Tutto per togliere per sempre Alex al papà. L'autopsia, disposta dal sostituto procuratore Manuela Comodi che accusa Katalina di omicidio volontario aggravato, svolta ieri dai medici legali Laura Panata e Mauro Bacci (l'avvocato Enrico Renzoni per la difesa ha nominato il dottor Luca Pistolesi), ha chiarito come delle nove coltellate due, al collo e al cuore, siano state mortali. I dubbi sull'orario della morte del piccolo angelo biondo vanno fugati integrando i risultati dell'esame con le impressioni della prima ricognizione e gli accertamenti svolti dai carabinieri. Di certo, le ultime immagini delle telecamere di sorveglianza la inquadrano a piedi vicino alla centrale alle 11.50, con Alex nel passeggino.

Poi più nulla fino al racconto dell'uomo che verso le tre la vede chiedere aiuto per strada. In mezzo, quel messaggio atroce al primogenito, con l'immagine del bimbo adagiato su una copertina bianca con gli animaletti, e il cambio della maglietta squarciata con una pulita. Le «braccia blu» raccontate dai testimoni sono definite dal gip Angela Avila - che ieri ha confermato il fermo della 44enne di origini ungheresi, lasciandola nel carcere di Capanne intanto per i prossimi tre mesi - «polsi neri», che potrebbero appunto indicare una morte avvenuta prima della richiesta di soccorsi nel supermercato. E se l'ex compagno – che racconta di episodi di violenza e minacce di far del male ad Alex dai tempi della gravidanza – è convinto sia stato tutto pianificato, i sospetti degli inquirenti vengono adesso confermati dal gip. Che nelle dodici pagine di ordinanza di custodia cautelare in carcere parla di «messa in scena, preparazione di una giustificazione ancora prima di commettere il reato» in vista di «qualcosa che stava programmando di fare e che purtroppo ha poi commesso». A cui si aggiunge l'aver giustificato il possesso di un coltello - poi sequestrato - come «difesa personale» perché era «spaventata dalla numerosa presenza di immigrati pericolosi», che «violentano le donne e ammazzano i bambini». «Quasi anticipando - sostiene il giudice Avila - quello che il giorno dopo avrebbe detto essere accaduto a suo figlio». Un alibi però, secondo il gip, del quale avrebbe fatto parte anche una ferita a un braccio che la donna si sarebbe procurata, «una messa in scena», una lesione che «verosimilmente lei stessa si è provocata con la stessa arma usata per l'omicidio».

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