«La 'ndrangheta a Perugia è arrivata con il terremoto del '97»

«La 'ndrangheta a Perugia è arrivata con il terremoto del '97»
di Michele Milletti
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Mercoledì 31 Agosto 2022, 08:55

PERUGIA «Quella perugina non era che l’infestante gemmazione della mala pianta sanleonardese, a propria volta metastatica propaggine di un male più profondo, antico e radicato, diramatosi da Polsi e da San Luca». In poco più di trenta parole, il tribunale di Crotone presieduto dal giudice Massimo Forciniti dipinge 25 anni di ‘ ndrangheta a Perugia. E cioè dall’arrivo di certi personaggi immediatamente dopo il terremoto che sconvolse l’Umbria nel 1997. Perché se gli esperti di legge, tra cui anche gli avvocati difensori degli imputati, sono pronti a sottolineare (e a ragione) in punta di diritto come in molti casi proprio i giudici abbiano escluso il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, è pur vero che i traffici illeciti di droga, le armi, le intimidazioni e le minacce che molti imprenditori hanno dovuto subire negli anni, oltre ai legami stretti “intercettati” con la casa madre, parlano forte di criminalità organizzata.
Un caso, quello della ramificazione umbra della mala crotonese, esploso all’alba del dodici dicembre 2019, con gli arresti e i sequestri di società e beni per milioni di euro operati dalla squadra mobile perugina su delega della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, diretta da Nicola Gratteri. Nel mirino di inquirenti e investigatori un gruppo di calabresi stabilmente residenti a Perugia.
Quegli arresti sono diventati un unico maxi processo, che ha visto riuniti gli indagati dell’operazione “Malapianta” contro le cosche crotonesi di San Leonardo di Cutro e la “Infectio” nei confronti dei loro contigui presenti anche a Perugia. Complessivamente 95 persone di cui 23 perugini, dieci dei quali hanno chiesto il rito abbreviato (7 condannati per 55 anni complessivi e tre assolti a maggio 2021), altri 12 quello ordinario più uno, Antonio Ribecco, morto di Covid in carcere pochi mesi dopo il suo arresto.
Lo scorso maggio, il primo round dell’incontro giudiziario che vede da una parte la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e dall’altra i perugini di nascita e d’adozione considerati la ramificazione in città delle cosche crotonesi di San Leonardo di Cutro si è concluso con altri sessanta anni complessivi di condanne e con altre tre assoluzioni.
E proprio scorrendo le oltre cinquecento pagine di motivazioni di quella sentenza di primo grado di tre mesi fa (contro cui gli imputati attraverso i propri legali faranno sicuramente ricorso in Appello) emergono questi 25 anni di presenza, sempre più “infestante”, di personaggi arrivati da San Leonardo di Cutro e zone limitrofe che avrebbero attuato metodi mafiosi per fare soldi sporchi. «Infatti, in seguito al terremoto del 1997, molta manovalanza proveniente dalla Calabria si era spostata nel territorio umbro e tra coloro che si erano trasferiti figurava anche Antonio Ribecco, soggetto coinvolto nell’indagine ma deceduto prima del presente processo» è scritto nelle pagine delle motivazioni della sentenza in riferimento a quanto emerso nel corso del dibattimento. E proprio quella di Ribecco, come più volte sottolineato, è una delle due figure centrali del gruppo perugino. Tra i primi casi di morti in carcere per Covid, un paio di mesi dopo l’esplosione della pandemia, il suo livello emerge nel corso di intercettazione da parte della squadra mobile nei confronti di Cosimo Commisso, che nel 2015 ottiene gli arresti domiciliari proprio a Perugia. «Dall’attività investigativa emergevano contatti tra quest’ultimo (Ribecco, ndr) e il Commisso, ritenuti significativi in quanto i due colloquiavano da pari e, quindi, si poteva desumere che gli stessi possedessero una caratura criminale equiparabile».
Di più, dal momento che sempre nel corso del processo è emerso come Ribecco non fosse «un soggetto minoritario bensì di rilievo, in quanto si relazionava pariteticamente sia con Commisso Cosimo, sia con Trapasso Giovanni, capo della cosca di San Leonardo di Cutro».
E se da un lato, oltre allo spaccio di droga, il gruppo che secondo gli investigatori era capitanato da Ribecco si stava muovendo anche per mettere in piedi produzioni di vino da vendere nei locali a Roma gestiti da altri esponenti della criminalità organizzata, dall’altro anche in sede processuale sarebbe emersa la figura, ampiamente contestata dai difensori e che adesso andrà al vaglio del secondo grado, di Giuseppe Benincasa come imprenditore di riferimento a Perugia della “casa madre”.

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