Mafia della droga dalla Tanzania:
il giudice nega il processo a Perugia

Mafia della droga dalla Tanzania: il giudice nega il processo a Perugia
di Enzo Beretta
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Martedì 5 Novembre 2019, 18:39 - Ultimo aggiornamento: 18:47

PERUGIA - «Il territorio della provincia di Napoli è il luogo, noto, in cui il sodalizio investigato ha stabilmente manifestato la sua concreta operatività o comunque realizzato una parte della sua attività tipica quale è quella di smercio delle partite di sostanza stupefacente importate dall’Africa». Così scrive nell’ordinanza di custodia cautelare il giudice Piercarlo Frabotta per spiegare che non è Perugia il tribunale competente ad affrontare il processo Domitia che in sette anni ha portato in carcere più di 150 persone.

Il pm Giuseppe Petrazzini è convinto che il dibattimento si debba incarcinare in Umbria perché è stata la Procura di Perugia a «iscrivere per prima la notizia di reato». Scrive l’aggiunto: «Tutti i reati accertati hanno avuto una genesi nei contatti tra soggetti che operano in vari Stati e, di conseguenza, sia dove l’associazione a delinquere si è effettivamente manifestata e realizzata l’operatività della struttura, sia le singole spedizioni di droga, hanno preso le mosse partendo da luoghi esistenti in Italia e vari Paesi esteri». Secondo Frabotta, però, «le argomentazioni» per mantenere il fascicolo a Perugia «non sono condivisibili»: «E’ sufficiente ricordare come tutte le partite di droga inviate dall’Africa, via Belgio, in Italia sono risultate destinate a Napoli - scrive il magistrato - nella cui provincia è risultata operare in maniera certo non occasionale ma anzi del tutto radicata una vera e propria articolazione territoriale del sodalizio, dotato a sua volta di uomini e mezzi, diretta ed organizzata dal sodale Muddy, peraltro da sempre residente o domiciliato nella provincia di Napoli». Secondo Frabotta «il fatto che nella provincia di Napoli fosse e sia radicato il terminale, preposto allo smercio, del narcotraffico internazionale tanzaniano oggetto di procedimento è un sintomo inequivocabile di operatività effettiva, concreta e duratura della struttura anche in tale frazione del territorio italiano, il che è sufficiente per ritenere territorialmente competente, come detto, il gip distrettuale di Napoli».

A proposito delle esigenze cautelari viene detto che esistono entrambi i rischi di pericolo di fuga e di reiterazione criminosa. Concentrandosi su alcuni indagati «la dislocazione dei sodali in più parti del globo terrestre e la loro estrema mobilità, la presenza in vari Stati europei solo in ragione delle cangianti esigenze logistiche dell’associazione e la provenienza da Paesi extracomunitari (Tanzania e Burundi) verso i quali non potrebbero essere attivati procedimenti per la consegna degli indagati sono tutti fattori che insieme alla prospettiva di andare incontro a rilevanti pene detentive rendono attuale il pericolo di fuga, in specie da parte di quegli indagati che risultano ancora attivamente versati nel traffico internazionale di stupefacenti».

Al momento dell’emissione del provvedimento «senza ombra di dubbio» una decina di indagati «continua a operare nel narcotraffico internazionale al preciso fine di importare dall’Africa nel territorio in provincia di Napoli un numero indefinito di partite di eroina, in realtà senza alcuna soluzione di continuità rispetto a quanto accertato per gli anni 2012, 2013 e 2014 e con una proiezione al futuro tesa alla ricerca di sempre nuove rotte di importazione e di mezzi di trasporto e corrieri che possano garantire una sempre più sicura penetrazione nel territorio italiano». Perché la custodia cautelare in carcere? «Nessun altra misura può garantire la disarticolazione dell’associazione i cui componenti hanno dimostrato di poter movimentare ingenti quantitativi di eroina dall’Africa all’Europa semplicemente parlando al telefono».
 

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