Perugia, il viaggio delle schiave del sesso: chieste condanne fino a 20 anni

Perugia, il viaggio delle schiave del sesso: chieste condanne fino a 20 anni
di Enzo Beretta
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Martedì 29 Ottobre 2019, 19:34
La Procura di Perugia ha chiesto di condannare quattro nigeriani coinvolti nella prima inchiesta della Direzione distrettuale antimafia sulla tratta di esseri umani dalla Nigeria attraverso la Libia a una pena complessiva di 59 anni di carcere. La richiesta è stata formalizzata ai giudici della Corte d'assise dinanzi ai quali si è svolto il processo originato dall'indagine che ha saputo ricostruire le tappe del drammatico viaggio fino all'Umbria e in particolare a Perugia dove alcune giovani venivano fatte prostituire.

Dalle indagini, che nel settembre 2017 hanno portato all'emissione di otto ordinanze di custodia cautelare, era infatti emerso che alcuni stranieri avevano introdotto illegalmente in Italia donne, anche minorenni, da destinare al successivo sfruttamento della prostituzione «approfittando della loro vulnerabilità, inferiorità psichica, minore età e necessità». L'indagine della Sezione criminalità organizzata della squadra mobile ha portato alla formulazione di accuse pesantissime che vanno dall'associazione per delinquere alla riduzione in schiavitù passando per la tratta di persone.

Nell'Aula «E» del palazzo di giustizia il procuratore aggiunto Giuseppe Petrazzini (che ha ereditato il fascicolo aperto dalla collega Antonella Duchini) ha chiesto di condannare Glory Osakpamwan (30 anni) a 18 anni di reclusione e al pagamento di una multa di 125 mila euro, Ernest Osakpamwan (32) a 20 anni, Bright Okuson (30) a 8 anni, Unity Edokpor (23) a 13 anni. Chiesta l'assoluzione per Sylvester Idele Osazee (30). Durante le indagini è emerso che i presunti associati hanno «gestito il viaggio dalla Nigeria alla Libia di alcune ragazze, la loro permanenza nei 'ghetti' sulle coste libiche (dove i migranti venivano sottoposti a violenze e privazioni), la traversata via mare fino all'Italia su fatiscenti imbarcazioni, ponendo così a rischio la vita stessa dei migranti, il successivo trasferimento dai centri di accoglienza italiani all'Umbria e in particolare a Perugia». «I migranti sono esposti a grave pericolo di vita per il sovraffollamento delle imbarcazioni – scriveva nell'ordinanza il gip Lidia Brutti – oltre a trattamenti inumani come la segregazione in luoghi vigilati, privazioni alimentari e violenze fisiche». Nella contestazione riguardante la tratta è spiegato che i migranti venivano imbarcati in «natanti fatiscenti a rischio della propria incolumità e della loro stessa vita senza cibo e acqua, ammassati in condizioni disumane».

A Glory e ad Ernest viene riconosciuto il ruolo di «promotori e organizzatori» della presunta associazione: «Organizzavano e gestivano la tratta - si legge negli atti d'accusa - mantenendo continui contatti con i sodali stanziati in Nigeria che si occupano del reclutamento, nonché con i referenti stanziati in Libia che gestiscono i rapporti con i boss dei ghetti che, sulle coste libiche, si occupano degli imbarchi dei migranti». In più «gestivano i rapporti con le famiglie di origine delle donne trafficate anche imponendo la sottomissione al rito voodoo, le modalità di pagamento del debito di ingaggio, il collocamento nei territori di destinazione finale e lo sfruttamento della prostituzione». In particolare le giovani donne contraevano un debito impegnandosi a ripagarlo con i guadagni del lavoro in Italia: il patto veniva siglato con il rito voodoo e la conseguente minaccia di morte in caso di mancato riscatto. Le difese, tra cui l'avvocatessa Barbara Romoli, nel corso delle loro arringhe hanno sollecitato ai magistrati togati Andrea Battistacci e Francesco Loschi e a quelli popolari l'assoluzione per tutti gli imputati.
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