Giovanni Allevi, che emozioni le dà avere accanto un coro mentre sta suonando?
In realtà, anche mentre suono il pianoforte oppure dirigo un'orchestra sinfonica, penso sempre al canto, ossia chiedo ai musicisti di cantare con il cuore, mentre suonano.
Quale messaggio intende lanciare al mondo scegliendo di portare sul palco un coro di voci bianche?
In un'epoca dove regnano il disincanto e il nichilismo, ho voluto riportare l'attenzione sulla purezza ed il candore, che non sono solo dei bambini, ma sono dimensioni celate dentro ognuno di noi.
Nel repertorio ha inserito grandi capolavori della storia per coro e orchestra, da Bach a Mozart a Händel. Secondo lei nella contemporaneità non si trovano composizioni con la stessa forza?
Certamente no, perché le esigenze commerciali, col tempo hanno appiattito ed uniformato la musica. Quindi è assai raro trovare delle isole di totale libertà di espressione e di coraggio artistico.
La scelta di utilizzare la batteria a cosa è dovuta?
Ho sentito che in "Oh happy day", per la prima volta dopo 11 album di studio, dovesse entrare la batteria. Questo delicato compito l'ho affidato ad un vecchio compagno di studi al conservatorio, un fantastico percussionista, che mi fu vicino quando ho vissuto da solo a Milano, da totale spiantato.
Con l’album Hope ha deciso di guardare verso il sacro, per coinvolgere l'ascoltatore in un'esperienza mistica. Questo dal vivo in cosa si trasforma?
Si trasforma in una potente esperienza di trance collettiva, in cui vedo gente piangere, o sentirsi improvvisamente compresa e sollevata. Io non sono una guida spirituale. Sono semplicemente uno di loro.
I brani di questo album sembrano un invito a guardare verso l'infinito. Dopo questa prima parte del tour le sembra che l’esperimento stia funzionando?
Forse sono riuscito ad interpretare una esigenza sotterranea di spiritualità, una sete di infinito e di bellezza che sembrava sopita o persa per sempre.
© RIPRODUZIONE RISERVATA