Coronavirus, la soccorritrice: «Porto via da casa le persone e non so se ci torneranno più. Piango sotto la doccia»

Sara Gargaglia, autista e soccorritrice della Croce Verde
di Nicoletta Gigli e Vanna Ugolini
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Giovedì 2 Aprile 2020, 10:07 - Ultimo aggiornamento: 22:57

«Il momento più difficile? Quando sei costretto a dire al paziente se ha preso tutto quello che gli serve in ospedale, a spiegare che non si sa per quanto tempo dovrà restare lontano da casa. Vedi lo smarrimento nei loro occhi, in quelli dei parenti. Persone costrette a vivere in funzione di quella telefonata da parte dell'ospedale, che contano le ore, i giorni, guardando il cellulare che non squilla. Tu sai che stai portando via da casa una persona e non sai se torna. Non sei in grado dire una parola buona ai parenti, non puoi dirla».

Sara Gargagli, 43 anni, ternana, è al lavoro con la croce verde di Rivoli, alle porte di Torino. Autista e soccorritrice, per anni con la croce verde di Ferentillo e la croce rossa di Terni, da un paio d'anni si è trasferita in Piemonte. In queste ultime ore gli interventi per sospetto covid hanno riguardato quattro ragazzi tra 20 e 30 anni.
«Il primo intervento per due sospetti positivi è dei primi di marzo. Andammo a casa di una coppia con seri problemi respiratori. In quei giorni quasi nessuno voleva andare in ospedale, preferivano curarsi a casa. All'inizio chiedevano il tampone, ma la prendevano sottogamba. Ora è diverso, le persone hanno paura, vogliono andare in ospedale, chiedono tutti di essere ricoverati. Tu non puoi rassicurarli. Per fortuna ogni soccorso ha un tempo limitato, non fai in tempo a familiarizzare col paziente. Ora ognuno di noi inizia a essere segnato, siamo tutti molto provati». La tuta bianca col cappuccio, due paia di guanti, copri scarpe, mascherina, occhiali e visiera ormai sono diventati la divisa di ogni giorno di lavoro.

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«C'è il problema dei dispositivi di protezione - dice Sara. Le mascherine sono contate, c'è da fare attenzione a non sprecare i presidi e anche se abbiamo avuto donazioni da parte di aziende della zona che ci hanno rifornito di materiale il problema c'è ed è serio». Lo stress per chi è sul campo, dopo un mese d'emergenza, inizia a farsi sentire: «Emotivamente la situazione inizia a pesare, stai sempre lì con la mente, anche quando torni a casa dopo aver finito il turno. Non è paura, ma la tensione è tanta. Ti fai mille domande, ripensi ai volti di quelle persone che hai lasciato a casa portando via un loro familiare, alla loro sofferenza, alla paura di non rivedere più il proprio caro. Vorresti rassicurarli e invece sei costretta solo a dire che le notizie arriveranno dall'ospedale, con tempi che spesso sono molto lunghi. La paura di essere contagiata? No - risponde convinta - siamo attenti e professionali, per fortuna nessuno di noi ha avuto alcun problema». Il compito più delicato è quello di rassicurare i genitori, che vivono a centinaia di chilometri: «Non faccio che ripetere loro di stare tranquilli, che va tutto bene. Invece vorrei far sciogliere le lacrime sotto a una doccia che vorrei far durare all'infinito».
 

 

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