Carla Bietta, epidemiologo della task force regionale: «Le persone hanno capito l'importanza del rispetto delle regole»

Carla Bietta, epidemiologo della task force regionale: «Le persone hanno capito l'importanza del rispetto delle regole»
di Fabio Nucci
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Sabato 21 Novembre 2020, 10:20

PERUGIA - Quando raggiunge al telefono le persone che hanno scoperto di essere positive al virus, la sua voce è pacata e decisa, professionale e allo stesso tempo cordiale. Uno dei componenti del Nucleo epidemiologico della Regione, Carla Bietta, da responsabile dell’unità di Epidemiologia della Usl Umbria 1 è uno degli operatori impegnati in prima linea nella gestione dell’epidemia. Un’attività chiave della task force anti Covid della Regione, nella quale i cittadini si dimostrano un elemento portante. Non senza criticità.
Dottoressa Bietta, le inchieste epidemiologiche uno degli aspetti più complessi della vostra attività.
«Siamo consapevoli del fatto che la tempestività non sia stata in alcuni momenti il nostro punto forte. Ma abbiamo incontrato consapevolezza da parte della popolazione: la gran parte aveva comunque capito e aveva rispettato l’isolamento, comprendendo l’importanza del rispetto di alcune regole. Il comportamento delle persone è uno dei punti più importanti nella gestione di questa epidemia».
Che situazioni vi siete trovati di fronte?
«Quando raggiungiamo un caso positivo al telefono, ci troviamo di fronte a sentimenti disparati, dallo smarrimento alla paura. C’è la volontà di uscire da questo incubo, ma anche la consapevolezza che il rispetto delle regole tutela le persone vicine. C’è la volontà di sentirsi a posto per non essere un pericolo per gli altri. Questo dà l’idea di una popolazione che, nonostante le difficoltà per la restrizione delle libertà, ha compreso che questo è un gioco di squadra nel quale ognuno deve fare la sua parte. E il cittadino sa che la sua non è secondaria e la svolge in modo consapevole e informato. I medici di famiglia sono stati determinanti».
Qualcuno però si è sentito abbandonato.
«Ne siamo consapevoli, non siamo riusciti a chiamare tutti tempestivamente. Erano comunque tutti a casa, aspettandoci. E questo non è un aspetto secondario».
Oltre alla mole di lavoro, cosa vi ha messo più alla prova?
«La consapevolezza che ogni telefonata in più, sebbene fatta anche in orario improprio, era un messaggio di tranquillità che arrivava alla popolazione: per questo abbiamo lavorato sopra le forze. Abbiamo avvertito lo smarrimento per aver appurato che il virus è un problema che si vive: qualunque sia lo stato clinico, c’è sempre una sofferenza. Non si può uscire di casa, non si possono avere contatti e la spesa viene lasciata fuori dal portone: è come avere un marchio».
Come siete intervenuti su questo?
«Il servizio cerca di dare risposte, indicando ulteriori forme di supporto, come ad esempio quello psicologico. Il nostro tono non sempre riesce ad alleggerire la tensione della persona con cui abbiamo a che fare: abbiamo l’assillo del tempo, altre persone aspettano la nostra telefonata».
Come vi ponete con l’interlocutore?
«Il nostro è uno stile asciutto che a volte può non risultare accogliente, anche se facciamo di tutto per entrare in empatia con l’interlocutore con cui ci mettiamo al fianco. C’è un forte carico emotivo, ma cerchiamo di fornire una via d’uscita, pur restando nello stile professionale che è dovuto. Altrimenti non sarebbe efficace. C’è un riverbero emotivo che all’inizio è più forte: poi, ci si fa l’abitudine ma quella alla sofferenza non la si fa mai».
Una sua ricerca “indaga” su età e numerosità dei casi.
«La sintomatologia si distribuisce in maniera diversa tra le fasce d’età. Tra i più giovani è meno grave e peggiora al crescere dell’età (comorbidità, più lenta risposta immunitaria): questo comporta una minore percezione del rischio tra i più giovani. Oggi, la presenza di molti casi comporta un carico per la Sanità in termini di inchieste epidemiologiche, di presa in carico da parte dei medici di famiglia, fino al ricovero, incidendo nella disponibilità di posti letto e terapie intensive. È questo il motivo delle misure di contrasto, ridurre i contatti affinché i casi si distribuiscano nel tempo: se arrivano tutti insieme, la sanità non ce la fa a gestirli. E qualcuno purtroppo potrebbe non avere il meglio delle cure cui invece avrebbe diritto».
Oggi c’è anche un numero più alto di morti rispetto a marzo.
«Ma l’incidenza è più bassa nonostante ci siano molti contagi e questo è un dato reale: il numero dei decessi aumenta in modo lineare con ricoveri e casi.

Nel tempo è migliorata la capacità di intercettare i nuovi positivi ed è migliorata la Sanità nel proporre diagnosi e terapie. C’è un affinamento degli strumenti e una consapevolezza diversa: all’inizio non sapevamo cosa fosse questo virus, ma sono passati mesi e la Sanità ha imparato dall’esperienza, nostra e degli altri. Il tempo ci ha migliorati ma alcuni interrogativi restano per affrontare un’epidemia da un virus mai visto prima».

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