Dall'analisi della acque reflue perugine
la possibile soluzione al coronavirus

un laboratorio di analisi
di Cristiana Mapelli
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Martedì 7 Aprile 2020, 09:09
Il Comune di Perugia propone l’analisi delle acque reflue come segnale della presenza di coronavirus nei centri abitati. «Un modo efficace e rapido per prevedere la potenziale diffusione del coronavirus raccogliendo biomarcatori presenti nelle feci e nelle urine da portatori dell’infezione che entrano nel sistema fognario». Lo spiega il vicesindaco Gianluca Tuteri che guarda alle sperimentazioni di numerosi gruppi di ricerca di tutto il mondo per stimare il numero totale di infezioni in una comunità, dato che la maggior parte delle persone non potrà essere sottoposta a test. La proposta dell’amministrazione comunale è stata condivisa con l’assessore regionale alla Sanità Luca Coletto e con l’Università degli studi di Perugia nella persona di Francesca Fallarini del dipartimento di Medicina sperimentale La misura del virus nelle acque di scarico appare estremamente utile, soprattutto dopo le prime riaperture per rilevare se il coronavirus ritorna nelle comunità». «Studi recenti – spiega il vicesindaco - hanno dimostrato che il virus vivo può essere isolato dalle feci e dalle urine delle persone infette e che il virus può sopravvivere fino a diversi giorni in un ambiente appropriato. Sorge il dubbio se anche la via oro-fecale potrebbe essere una via di trasmissione. Ancora gli scienziati non hanno escluso o confermato questa possibilità, sono necessarie ulteriori ricerche». Secondo Tuteri, i ricercatori dovranno definire quanto Rna virale viene escreto nelle feci ed estrapolare da questo il numero di persone infette in una comunità. «Importante sottolineare che la sorveglianza delle acque reflue, non toglie risorse ai test sugli individui». Le misure di controllo delle infezioni, come il distanziamento sociale, stanno rallentando la pandemia, ma il virus potrebbe tornare a circolare dopo la revoca delle restrizioni. «La sorveglianza di routine delle acque reflue – spiega ancora - potrebbe essere utilizzata come strumento di allerta precoce non invasivo per avvisare le comunità sulle nuove infezioni da Covid-19 nella comunità consentendo di intervenire tempestivamente per limitare i movimenti di quella popolazione, lavorando per ridurre al minimo la diffusione del virus e la minaccia per la salute pubblica. In passato monitoraggi delle acque reflue sono stati utilizzati per rilevare focolai di corovirus, batteri resistenti agli antibiotici, poliovirus e morbillo. In particolare, un gruppo di ricercatori olandesi ha rilevato tracce del virus nelle acque reflue dell'aeroporto di Schiphol a Tilburg solo quattro giorni dopo che i Paesi Bassi hanno confermato il primo caso di coronavirus usando test clinici. I ricercatori sono al lavoro per estendere il campionamento alle capitali delle province dei Paesi Bassi. Gli studi hanno anche dimostrato che Covid-19 può comparire nelle feci entro tre giorni dall'infezione, molto prima del comparire dei sintomi. Il monitoraggio delle particelle virali nelle acque reflue – conclude Tuteri - potrebbe dare alla sanità pubblica un vantaggio decisivo per decidere se o quando introdurre/sospendere, misure restrittive. E badate: vista la velocità con cui si diffonde il virus tra la gente, più le misure sanitarie sono prese velocemente, meglio è».
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