Shalabayeva, tutti assolti: «Una pagina di giustizia»

Il rimpatrio della moglie del dissidente kazako Ablyazov non fu sequestro di persona

Improta e cortese oggi dopo la sentenza di assoluzione per la Shalabayeva. Foto di Rino Barillari
di Egle Priolo
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Giovedì 9 Giugno 2022, 20:23 - Ultimo aggiornamento: 23:27

Caso Shalabayeva, tutti assolti i poliziotti accusati di sequestro: non fu assolutamente «un rapimento di Stato». Dopo oltre nove anni di inchiesta e quasi dieci ore di camera di consiglio, quando il presidente della Corte d’appello di Perugia ha sibilato «articolo 530 del codice di procedura penale», l’aula Goretti ha smesso di trattenere il fiato e si è sciolta in un unico respiro. Quello di Renato Cortese, ex capo della squadra mobile di Roma, e Maurizio Improta, ex capo dell’ufficio immigrazione ed ex vertice della Polfer. Quello degli altri quattro poliziotti Francesco Stampacchia, Luca Armeni, Vincenzo Tramma e Stefano Leoni che, insieme al giudice di pace Stefania Lavore, erano finiti sotto processo (e condannati tutti in primo grado) per quel rimpatrio di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov, e della figlia Alua che per la procura generale fu un sequestro. Ma la Corte d’appello, presieduta da Paolo Micheli, con un colpo di spugna cancella in due pagine la vita sospesa subita per anni da questi servitori dello Stato, che dopo la prima condanna avevano ottenuto il sostegno anche del capo della polizia Lamberto Giannini. Suo uno dei messaggi arrivati a Improta durante la lunghissima e snervante attesa: un modo per non far mancare il suo appoggio. Un modo per dire la polizia è la tua famiglia, ci siamo. E quando i giudici sono usciti, nell’aula più bella di palazzo del Capitano del popolo è scoppiato spontaneo un lungo applauso, cadenzato dai singhiozzi e dagli abbracci: il primo, al papà, quello del figlio di Improta. E poi le strette sincere come pizzicotti: non è un sogno, è successo davvero. A sfilare davanti ai poliziotti tutti i colleghi arrivati a Perugia da diverse regioni, tutti a voler sostenere chi per anni ha subito «mortificazioni e dolore». 

Improta e Cortese oggi dopo la sentenza di assoluzione per la Shalabayeva. Foto di Rino Barillari

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«È una pagina di giustizia, il processo non doveva neanche cominciare», il commento di Ester Molinaro, avvocato di Cortese con Franco Coppi. «È stata riconosciuta la regolarità della nostra attività e l’assenza assoluta di qualsivoglia iniziativa criminale – ha detto l’ex capo dell’immigrazione -.

Penso a mia madre che ha 90 anni e che avrà un bel regalo, a mia moglie che proprio oggi compie gli anni, a mio nipote di sei mesi che almeno avrà un ricordo di un nonno perbene. Sono passati nove anni che nessuno mi restituirà e forse adesso potrò avere un po’ di serenità. Il mio futuro? Lo deciderà il capo della polizia». I poliziotti, compreso Cortese che ha sul curriculum persino l’arresto del boss della mafia Bernardo Provenzano, per «questioni di opportunità» furono rimossi dai loro incarichi e assegnati ad altri uffici. Ora ci sarà magari qualcosa di diverso rispetto «all’armadio di legno del ministero da guardare domandandomi del mio futuro». Le parole sono sempre di Improta, che nelle quasi dieci ore di attesa ha cercato di smorzare la tensione tra caffè, sigarette e battute che tradivano la sua napoletanità verace. L’opposto di Cortese che ha schivato per una giornata sorrisi e pacche sulle spalle, spesso al telefono, solo, a girare per piazza Matteotti, ai piedi del tribunale, aspettando il suono della campanella. 

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Il ricorso

E se mancava Shalabayeva, in aula c’erano anche il procuratore generale Sergio Sottani e il sostituto Claudio Cicchella che avevano chiesto cinque condanne pesanti e l’assoluzione di Leoni e Lavore, sostenendo che fossero state commesse scorrettezze quando, nella notte tra il 28 e il 29 maggio 2013, Alma Shalabayeva e la figlia furono prelevate dalla polizia nella loro abitazione di Casalpalocco: le forze dell’ordine cercavano il marito ma alla donna fu contestata l’accusa di possesso di un passaporto falso. Due giorni dopo, firmata l’espulsione, furono rimpatriate. La donna e la figlia sono poi tornate in Italia e a Shalabayeva nell’aprile 2014 è stato riconosciuto l’asilo politico. Ma la ricostruzione della procura e quell’accusa di «rapimento di Stato» contenuta nella prima sentenza non hanno convinto la Corte. E non solo. I quasi 600 minuti della lunga camera di consiglio potrebbero essere già serviti ai giudici per studiare le motivazioni pronte a reggere in Corte di cassazione. La procura generale infatti ha già ipotizzato in requisitoria l’idea di ricorso. Con il giudice Micheli, consigliere in Cassazione per otto anni, che probabilmente ha voluto subito blindare la sua sentenza d’appello. E quella sfilza di «il fatto non sussiste» e il «fatto non costituisce reato».

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