Il Divin Codino su Netflix. Baggio: «Al pensiero di un film su di me provavo vergogna».

Roberto Baggio
di Piero Valesio
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Venerdì 21 Maggio 2021, 08:57 - Ultimo aggiornamento: 15:07

«Al pensiero di un film su di me provavo vergogna. A chi volete che interessi, dicevo. Se fosse stato solo per me non si sarebbe realizzato mai». Ascolti Baggio e ti viene in mente Carlo Ancelotti, che si è definito un “falso buono”. Roberto Baggio, nel film Netflix non è tanto un falso buono quanto un “duro” più o meno nascosto. Lui pratica la meditazione buddista ma dopo va a caccia; è un figlio che non esita a ferire verbalmente il padre ma è anche un ragazzo che raccoglie la sciarpa viola atterrata ai suoi piedi dopo la sua prima partita a Firenze con la maglia della Juve (episodio che nel film non c’è ma è come se ci fosse lo stesso).

«In realtà raccolsi quella sciarpa – racconta Baggio – come un gesto di affetto nei confronti di persone che mi volevano bene, al di là di quello che avevo combinato come calciatore dato che per due anni non aveva giocato mai». Tutto ciò che di potenzialmente divisivo poteva esserci nella narrazione (sempre di pallone si parla) è stato eliminato. Il contestatissimo passaggio della Fiorentina alla Juve, le polemiche all’Inter e al Milan. Il Roby del film incarna tutto ciò che del gioco più amato può unire.

A questo fine contribuiscono anche le scene di calcio giocato: quelle di repertorio sono pochissime, in pratica solo citazioni, perché avrebbero rischiato di convogliare il film verso un carattere più didascalico. Quelle ricostruite sono accennate e realizzate a campo strettissimo: anche qui cenni emotivi più che ricostruzioni. Perfino la voce di Pizzul (quella reale), così paterna, si ode per qualche secondo: la voce che commenta la fasi riscostruite è anch’essa un omaggio al principe dei telecronisti.

Perché il calcio, nel film, è una quinta di un personaggio tragico che per tutta la vita ha cercato l’approvazione paterna (meraviglioso Pennacchi) anche e soprattutto nel rapporto con i suoi allenatori. Con Sacchi negli Stati Uniti forse le cose andarono anche un po’ oltre il faccia a faccia raccontato prima della finale.

Agli antipodi c’è Mazzone che invece è padre montessoriano, accogliente, capace di riconoscere la leadership naturale del suo figlio adottivo. In mezzo c’è Trapattoni che non lo convocò per i mondiali nippocoreani del 2002, provocandogli la peggiore delle arrabbiature. E che rimpianto proviamo ancora oggi riflettendo su quanto il talento di Baggio avrebbe potuto essere più forte dell’acqua santa del Trap e delle nefandezze dell’arbitro Byron Moreno. A ben vedere ne “Il divin codino” c’è un’essenza-madre di Baggio che si muove in un sublimato del gioco del calcio. Non è un caso che nella sequenza finale il brano musicale che ascoltiamo è “Paradise” di Springsteen il cui testo recita: “Ti vengo a trovare in un altro sogno/E aspetto il paradiso”. La palla ha sorvolato la traversa (“Quel rigore non l’ho mai archiviato. E’ impossibile. Sarà sempre con me e fa malissimo. Ma ormai ho imparato a conviverci”) e il Mondiale è andato. La vera partita è accettare un fallimento. Ecco perché “Il Divin Codino” è un’operazione riuscita: perché attraverso la partita fra la vita e Baggio, racconta quella che giochiamo noi. Compresi i rigori decisivi che volano sopra la traversa. 

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