La Spagna si è incollata agli schermi dalla primavera all’autunno scorsi; quattro milioni di spettatori a seguire le gesta di Tokyo, Mosca, Berlino, Nairobi, Rio, Denver, Helsinki, Oslo. Perché Il Professore ha scelto per ognuno dei componenti la banda un nome di città, come un mappamondo armato di pistole e mitragliette e per ciascuno un’identica maschera da indossare: un siliconato facciale che riproduce l’occhio spiritato e il baffo ribelle di Salvador Dalì, l’artista di casa per eccellenza, l’anarco-comunista dada, surrealista, simbolista, l’amico di Lorca, Bunel, Picasso, Breton prima di affiancare il regime franchista. E non è certo un caso, visto che la produzione spagnola de “La casa di carta” ci tiene a sottolineare le proprie radici nella galassia seriale americana e inglese ma anche danese e tedesca che sta soppiantando il potere del cinema. Tra le tante novità, c’è anche questa: appropriarsi dell’immaginifico a stelle e strisce(vedi le maschere dei presidenti Usa in “Point Break ”di Kathryne Bigelow) e metterci il timbro catalano.
Tredici episodi andati in onda su Netflix, altri dieci in partenza da stasera. La febbre è alta: su Facebook la pagina della serie conta settemila e cinquecento follower mentre la paytv da qualche giorno ha mandato in rete il trailer delle nuove puntate ma l’imperativo sui Social è «Non spoilerate!». Sei sceneggiatori e quattro registi, un team monstre a disposizione dell’ideatore della serie, Alex Pina di Pamplona, già giornalista per El Diario de Mallorca e dell’Europa Press Agency poi sceneggiatore per Videomedia e Telecinco e infine fondatore di Vancouver Media e divenuto celebre per la serie “Vis a Vis”. Nel suo “La Casa de Papel” (questo il titolo originale) i meccanismi di suspense sono oliati alla perfezione, nulla è lasciato al caso e ad ogni possibile “caduta” risponde all’istante un nuovo colpo di scena a ristabilire l’ordine delle cose. Il tutto posizionando, tra le righe, rimandi precisi a capolavori del cinema come “La Stangata” di Roy Hill, “Shining” di Kubrick, “Le Iene” di Tarantino, le tecno-invenzioni di “Q” dei vari James Bond. Ma nella “Casa di Carta” anche le citazioni riescono a riappropriarsi di una verginità. Accade solo nei capolavori.
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