«Era raggiante». Piemontese, 55 anni, il regista Marco Ponti ieri ha voluto ricordare Gianluca Vialli così, nel momento in cui lo scorso novembre - il campione presentò nei cinema di Genova il documentario La bella stagione, da lui fortissimamente voluto e sostenuto sino all'ultimo.
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«Dovevamo proiettare il film in una sala, ma le persone erano troppe e alla fine ce ne hanno date cinque. Sui titoli di coda il pubblico si è alzato in piedi cantando Lettera da Amsterdam, l'inno non ufficiale della Sampdoria.
ENTUSIASMO
«Non ci siamo mai detti che potesse essere un testamento, anzi non è mai stato nemmeno un argomento. E questo rende chiara la statura del personaggio. Vialli non è mai stato egoriferito, non ha mai detto: facciamolo perché sono io, ma perché è una grande storia. Da vero narratore ha capito che quel racconto poteva essere importante per tanta gente, non solo per chi affronta la malattia o la precarietà, ma anche per le persone che oggi cercano nel mondo e nello sport certi valori». La stesura del copione è durata un anno e mezzo, «Luca e mi faceva tante domande, tutte quelle che si fanno quando si affida il proprio sogno a qualcun altro ha aggiunto Ponti - Abbiamo lavorato con costanza e sempre con tantissimo entusiasmo. Sentivamo che in quella storia c'era il senso dello spirito di gruppo e della squadra, ma anche la bellezza dello stare insieme, del toccarsi, dell'abbracciarsi dopo l'esperienza del Covid. E Vialli lo sapeva, sentiva nei confronti del film un'urgenza più narrativa che personale». Pur provato dalla malattia, a novembre il campione aveva insistito per accompagnare il film a Torino, incontrando pubblico e stampa: «Vialli ha fortemente voluto il documentario, ci teneva a smentire le leggende su Genova che indebolisce i giocatori dice Rovere - Per lui il sole della Liguria non era una distrazione ma un vantaggio, perché il mare, diceva, ti dà la sensazione di un orizzonte raggiungibile. È stato insieme a noi per tutto il lancio del film, e nonostante le forze fossero poche ha creduto nel lavoro e nel messaggio che il documentario poteva lasciare alle giovani generazioni. Mancherà, al calcio e alla società. Ha lasciato la testimonianza importante di un grande atleta, un grande uomo e un grande artista».