Ragazzoni: «Cerco i pianeti con Cheops, segugio dei cieli»

Ragazzoni: «Cerco i pianeti con Cheops, segugio dei cieli»
di Enzo Vitale
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Lunedì 16 Dicembre 2019, 00:43
Astronomo, scrittore, pilota ma anche scienziato con uno spiccato senso pratico. Lui è Roberto Ragazzoni ed ha contribuito alla realizzazione di Cheops, il telescopio che verrà messo in orbita domani all'interno del modulo di trasporto del lanciatore Soyuz. Ragazzoni è un ricercatore eclettico: nel 2016 è stato insignito del premio Feltrinelli dell'Accademia dei Lincei e nel 2001 del premio Wolfgang Paul della Fondazione tedesca Humboldt. Oltre a Padova ha lavorato a Firenze, Tucson ed Heidelberg.

Direttore, il telescopio Cheops si accinge a lasciare la Terra, cosa studierà?
«I pianeti attorno a stelle diverse dal nostro Sole, i cosiddetti esopianeti o pianeti extrasolari, che sono già stati scoperti da qualche altro telescopio, per misurarne la dimensione, il diametro, con grande precisione. Insomma per capire quanto sono grandi. Da terra, per esempio, con il telescopio Italiano alle isole Canarie, possiamo già misurarne la massa, e con questi due elementi possiamo cominciare a capire di cosa sono fatti questi pianeti, gas, acqua, ghiaccio, roccia, ferro... E poi facendo queste misure di fino potremmo capire meglio quanto spessa è la loro atmosfera o se hanno delle lune. Insomma andiamo a caccia di pianeti con un vero e proprio segugio dei cieli».

Quale è stato il contributo italiano alla missione
«L'Italia ha costruito l'occhio del telescopio, le ottiche, gli specchi e le lenti, confermando una tradizione che comincia dal cannocchiale di Galileo e che continua anche ai giorni nostri. E scienziati italiani stanno mettendo a punto le tecniche per analisi dei dati».

La Nasa sta concludendo Spherex e l'Europa risponde con Cheops, quali sono le differenze tra le due missioni?
«Beh, in realtà Cheops (acronimo di CHaracterising ExOPlanets Satellite, ndr) è stato approvato prima di Spherex (Spectro-Photometer for the History of the Universe, Epoch of Reionization and Ices Explorer, ndr), sono due progetti molto differenti: per quel che riguarda i pianeti extrasolari la missione americana fornirà una mappa di quali stelle presentano un disco di materia dal quale sappiamo che in seguito si formeranno dei pianeti. Cercherà pianeti sul punto di nascere, mentre Cheops misurerà quelli già formati».

Quali sono gli enti, gli istituti e le industrie italiane coinvolte?
«Tantissimi, quasi impossibile elencarli tutti, ma oltre all'Inaf (Istituto nazionale di astrofisica) ci sono, ad esempio, gli Osservatori astronomici di Padova e Catania, poi l'ateneo di Padova per quel che riguarda il mondo della ricerca. Leonardo (che conserva l'eredità delle famose Officine Galileo) vicino a Firenze e la Media Lario, vicino a Lecco, che continuano a costruire ottiche superbe».

Troveremo mai un pianeta simile alla Terra? E soprattutto riusciremo a trovare atmosfere di pianeti all'interno della nostra galassia?
«Ogni tanto circola la notizia di qualche pianeta che per posizione e qualche altra proprietà potrebbe essere simile alla Terra ma per una misura certa dovremo attendere ancora, diciamo una decina di anni, anche se potrei essere smentito da qualche scoperta fortuita piú vicina nel tempo. Per le atmosfere, già ne misuriamo dei pianeti, è più facile. Ma per cominciare ad avere qualche risultato piú interessante e che, questa è la mia previsione, ci sorprenderà, è solo questione di aspettare il lancio del prossimo grande telescopio spaziale, il James Webb Telescope». 

Lei è considerato un'eccellenza nel campo degli strumenti di osservazione, quali sono i problemi che si incontrano?
«Quando vede d'estate un auto distante sull'asfalto rovente, vede l'immagine sfarfallare per via della turbolenza dovuta al calore della strada. In astronomia, facciamo osservazioni così precise che basta molto meno per rovinare le immagini. Il romantico scintillio delle stelle è una iattura per l'astronomo che vorrebbe misurare la luce della stella che è continuamente modificata dai moti caotici della nostra atmosfera».

Che cos'è l'ottica adattiva?
«È una tecnica in cui all'interno del telescopio introduciamo deliberatamente un'ulteriore deformazione alla luce delle stelle, ma se lo facciamo in modo accurato possiamo cancellare quella deleteria e rendere l'immagine quasi come se fosse raccolta rimanendo in orbita. Pur rimanendo sulla Terra».

Mi toglie una curiosità?
«Certamente».

In un recente convegno l'ho sentita definirsi un astronomo ma anche un cacciavitaro, ma cosa significa?
Ragazzoni ride: «Il termine l'ho rubato al grande fisico italiano, che lavora al Cern, Lucio Rossi. In fisica ed in astronomia ci sono sempre i teorici, che elaborano teorie e che azzardano previsioni su come si comporti la natura e l'universo, e gli osservativi, che poi sparano particelle in un acceleratore o mettono l'occhio, per così dire, al telescopio. E tra questi chi, magari armati di strumenti più sofisticati ma, capita ancora adesso a volte, di cacciavite, che costruiscono delle macchine ingegnose per misurare questo o quello. O almeno ci provano».

Quale è stato il momento della sua carriera che ricorda con maggiore passione?
«Io invento e costruisco strumenti nuovi, spesso un pochino alla famolo strano. Probabilmente il momento clou della mia carriera avvenne alle Canarie quando riuscimmo a mettere a punto un sistema di ottica adattiva che nel giro di una decina di anni in tanti avrebbero voluto in quasi tutti i grandi telescopi del mondo. Un'emozione paragonabile al primo momento in cui l'allievo pilota vola da solo per la prima volta».
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